Alla ricerca di genomi umani… senza resti umani

La rivista Science pubblica il ritrovamento di DNA umano antico estratto da sedimenti

Come mi succede ogni volta che mi trovo di fronte un risultato entusiasmante o inatteso, vengo assillato dai dubbi. Pensai a tutti gli errori che potevamo avere commesso. (…) Questa nuova sequenza di DNA mitocondriale era chiaramente vicina a quelle umane, ma differiva lievemente da tutte quante. Cominciai a credere che fosse veramente il primo frammento di DNA mai estratto e analizzato da una specie estinta”. E’ in questo modo che Svante Pääbo nel suo libro “L’uomo di Neanderthal” descrive quanto ottenuto nel suo laboratorio nel 1996… era indubbiamente una giornata storica per tutta la comunità scientifica, perché per la prima volta veniva estratto e sequenziato un frammento di DNA neandertaliano.

Negli anni successivi, anche grazie alla rivoluzione nelle tecnologie per sequenziare il DNA, il gruppo di Pääbo è passato dal sequenziare un piccolo frammento di poco più di settanta nucleotidi al ricostruire il genoma quasi completo di un uomo di Neanderthal (su Pikaia ne avevamo parlato qui). Quello che era cominciato trent’anni prima come un hobby segreto di Pääbo durante il dottorato in Svezia, diventava ora un nuovo strumento per comprendere l’evoluzione della nostra specie e dei suoi antenati.

Pochi anni dopo, da pochi milligrammi di materiale isolato da una falange di un mignolo e da un dente (ritrovati nella grotta di Denisova sui monti Altai nella Siberia meridionale), veniva estratto DNA in quantità sufficiente per ricostruire il genoma dell’uomo di Denisova (su Pikaia ne avevamo parlato qui). Il risultato era (ed è tutt’ora) incredibile, perché il genoma ottenuto non solo era il più dettagliato genoma antico mai ottenuto prima, ma apparteneva ad una popolazione estinta di cui non sappiamo nulla e di cui abbiamo pochi resti ossei. Grazie a questi risultati è quindi possibile pensare di fare ricerche antropologiche anche in presenza di pochi (e piccoli) resti ossei. Cosa chiedere di più alla genetica?

La risposta a questa domanda l’ha fornita nuovamente il gruppo di ricerca di Pääbo mostrando che è possibile svolgere ricerche antropologiche anche senza ossa. Impossibile? L’idea, pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Science, consiste nella definizione di una nuova metodica per arricchire e isolare DNA mitocondriale umano antico da sedimenti (e non da ossa!) raccolti in grotte. In alcuni siti archeologici, le condizioni sarebbero ottimali per preservare DNA in eventuali campioni ossei (ad esempio all’interno di grotte calcaree), ma non sempre ossa o loro frammenti vengono effettivamente recuperate, per cui poter disporre di altre “fonti” di DNA sarebbe molto utile.

L’idea di usare sedimenti di per sé non è nuova, perché già nel 2003 il genetista danese Eske Willerslev era riuscito a isolare e sequenziare frammenti di DNA di antichi mammut, cavalli e piante rilevati in sedimenti prelevati da grotte situate in regioni dal clima temperato. Il DNA poteva quindi essere presente, ma grazie al gruppo di Pääbo oggi è sappiamo che questo è possibile anche per studiare sequenze umane antiche e distinguerle dalle possibili contaminazioni derivanti da materiale biologico umano moderno (proveniente ad esempio dai ricercatori che hanno lavorato nelle aree di scavo).

Come pubblicato su Science, i ricercatori coordinati da Pääbo hanno analizzato 85 campioni derivanti da 7 siti archeologici distribuiti tra Francia, Belgio, Spagna, Croazia e Russia. Ricorrendo ad un protocollo di arricchimento del DNA mitocondriale (scelto perché presente in copie multiple all’interno di ciascuna cellula), i ricercatori hanno ottenuto DNA antico riconducibile a diversi mammiferi (tra cui bovini, equini, canidi e cervidi), la cui presenza è coerente con precedenti analisi di carattere zooarcheologico.

Per quanto concerne invece il DNA di ominini, DNA antico neanderthaliano è stato rinvenuto in più campioni e in alcuni casi è stato possibile anche determinare che il DNA mitocondriale ottenuto derivava da più individui. DNA denisoviano è stato invece osservato, come atteso, nei sedimenti raccolti sui Monti Altai. Un aspetto interessante è che tra i campioni che hanno dato risultati positivi ve ne erano alcuni che non erano stati raccolti appositamente per queste analisi, ma che erano stati campionati negli anni precedenti e conservati senza particolari accorgimenti a temperatura ambiente. Per il sito di Trou Al’Wesse, il DNA neanderthaliano identificato è la prima evidenza diretta della presenza di Neanderthal riconducibile al pleistocene (le precedenti evidenze erano legate a manufatti).

Sebbene sia noto che alcuni minerali possono stabilizzare il DNA presente in sedimenti (derivante ad esempio dalla decomposizione di tessuti molli), la quantità di DNA antico umano ottenuto è decisamente superiore all’attesa per cui, come suggerito anche da Pääbo, i sedimenti potrebbero rivelarsi campioni preziosi per studiare la presenza di ominini in completa assenza di reperti ossei.

Sebbene il modo in cui le sequenze sono identificate come neandertaliane/denisoviane sia ancora oggi frutto di qualche discussione nella comunità scientifica, la paleogenetica è oggi una disciplina consolidata, così come la genomica di uomini antichi estinti. Come scrisse Darwin alla fine di LOrigine delle specie: “Luce si farà sull’origine dell’uomo e la sua storia”, ma probabilmente nemmeno lui si sarebbe aspettato così tanti colpi di scena.

Riferimento bibliografico:
Slon V. et al. (2017) Neandertal and Denisovan DNA from Pleistocene sediments. Science 27 Apr 2017:eaam9695. DOI: 10.1126/science.aam9695

Immagine: By Tomislav Kranjcic (originally posted to Flickr as vindija) [CC BY-SA 2.0], via Wikimedia Commons