All’origine del linguaggio una scimmia capace di cantare?

Unendo scoperte genetiche, lo studio del sistema nervoso dei primati e i meccanismi neurologici alla base del canto degli uccelli, uno studio propone una nuova suggestiva ipotesi sull’origine del linguaggio nella nostra specie

Non esiste una parte del cervello umano che conferisce univocamente la capacità di parlare, anche se alcune aree cerebrali, se danneggiate, possono impedire l’uso del linguaggio. Ma gli studi di anatomia comparata dimostrano che le stesse aree cerebrali sono presenti, anche se con forme e proporzioni diverse, in altri primati (che ovviamente non sono in grado di parlare). 
L’eloquio è un comportamento così caratteristico della nostra specie che sono stati necessari molti anni di studi perché i ricercatori si rassegnassero all’idea che il linguaggio, come accade per molti tratti evolutivi, non nasce da una nuova struttura cerebrale esclusivamente umana, ma dal cambio di destinazione e dalla riorganizzazione di parti di cervello già esistenti negli antenati comuni fra noi e gli altri primati. Proprio per questo motivo, difficilmente si potranno mai ottenere indizi sulla nascita del linguaggio attraverso i soli reperti paleontologici, dato che tutto ciò che possiamo dedurre da un cranio fossile è la forma del cervello che conteneva.
I ricercatori che si occupano dell’evoluzione del linguaggio non si sono fatti però fermare da questo limite apparentemente insuperabile ed hanno proseguito le loro indagini basandosi su prove indirette, nel tentativo di costruire uno scenario evolutivo il più possibile coerente. In particolare Hermann Ackermann del General Neurology Hertie Institute for Clinical Brain Research dell’Università di Tuebingen, insieme a colleghi di altre università tedesche, ha catalogato un’ampia serie di dati clinici, comportamentali e genetici, nonché altri di imaging funzionale e di anatomia comparata. Sulla base delle evidenze raccolte il gruppo di ricerca ha proposto un’intrigante ipotesi secondo cui il linguaggio umano deriverebbe dallo sviluppo dell’abilità per il canto, originatasi in un nostro antenato ominide. Intendendo per canto la capacità di emettere sequenze di suoni armonici, complessi, non stereotipati e trasmessi per via culturale di generazione in generazione (proprio come accade per il canto di molti uccelli). 
La costruzione dell’ipotesi di Ackermann è complessa e si basa su una mole imponente di dati, ma uno degli elementi che la sostengono è particolarmente suggestivo. La fonazione umana è controllata da due distinte vie nervose, dove per vie si intendono gli assoni coperti di mielina (sostanza bianca) che connettono fra loro neuroni distanti. Nell’uomo sono presenti gli stessi gruppi di neuroni (sostanza grigia) presenti negli altri primati, ma solo nella nostra specie alcuni di questi comunicano direttamente tra loro permettendo la parola. Infatti, la rete di collegamenti fra neuroni che servono nell’uomo a produrre suoni semplici ma ad alto contenuto emotivo, come il pianto, la risata o il grido di dolore, è distinta da quella che controlla il linguaggio verbale e molto più antica filogeneticamente. Inoltre, questa è omologa a quella che negli altri primati controlla la produzione dei loro versi caratteristici. L’altra via serve invece a produrre suoni più articolati e parole e, anche se le singole componenti del cervello che la formano non sono esclusive dell’uomo, in nessun altro primate esse sono organizzate fra loro così come si presentano negli esseri umani. L’esclusività della via nervosa della parola è stata a lungo un argomento per sostenere l’origine trascendente, e quindi non spiegabile in termini evolutivi, del linguaggio. Ma allargando la visuale all’interno del regno animale si scopre rapidamente che le cose sono differenti. 
L’esame del sottordine di uccelli oscini, noto in lingua inglese con il nome comune songbird per il canto melodioso di molte sue specie, ha rivelato in quelle dotate di un canto complesso e non stereotipato una doppia via nervosa simile a quella descritta in precedenza per l’uomo. Inoltre i dati disponibili indicano che questa caratteristica si è evoluta indipendentemente almeno tre volte in linee filogenetiche differenti di oscini, ognuna delle quali contiene anche specie con canto stereotipato e una sola via nervosa.
Una capacità di canto potrebbe quindi essersi evoluta in modo indipendente nei primi ominidi, in modo simile a quanto avvenuto negli uccelli, ed essersi dimostrata poi vantaggiosa in un ambiente come la savana africana; per esempio, questa caratteristica avrebbe permesso ai membri del gruppo di mantenersi in contatto tra loro pur non vedendosi nell’erba alta, oppure sarebbe stata utile a svolgere azioni coordinate a distanza.
Solo in un secondo momento, ulteriori mutazioni genetiche avrebbero “rifinito” la via nervosa del canto, rivelandosi sempre più vantaggiose man mano che rendevano i suoni emessi più ricchi di informazioni. Fino a quando il canto è diventato vera parola.
Per approfondire si veda anche questo articolo del 2006 e questo altro pezzo di Pikaia
Daniele Paulis
Riferimenti:
Ackermann H, Hage SR, Ziegler W. Brain mechanisms of acoustic communication in
humans and nonhuman primates: An evolutionary perspective. Behav Brain Sci. 2014 
May 15:1-84.