Come si fa una specie?

Una ricerca recente indaga la “zona grigia” di divergenza genetica che accompagna i fenomeni di speciazione, scoprendo che, anche in gruppi animali diversissimi, la formazione di nuove specie potrebbe essere accompagnata da meccanismi genetici simili

Ci sono occasioni in cui la vita di noi appassionati di evoluzione ha momenti insieme intriganti e difficili. Ad esempio quando viene pubblicato un articolo del quale si capisce immediatamente che è interessante e che potrebbe avere implicazioni rilevanti per la biologia dell’evoluzione, ma si fatica a entrare nella “cucina” dei dati. E’ questo il caso di un articolo sulla speciazione in atto, pubblicato da Camille Roux e collaboratori, la cui lettura ci ha fatto tornare alla mente le parole di S. J. Gould in una recensione di qualche anno fa. “Con un candore disarmante, Dobzhansky spiegò poi (nel 1962): Il [mio] modo di leggere i lavori di Sewall Wright, un modo che credo sia perfettamente difendibile, è di esaminare le assunzioni biologiche che fa, leggere le conclusioni a cui arriva e sperare in dio che quello che c’è in mezzo sia corretto. ‘Il papà lo sa meglio’ è un’assunzione ragionevole, perché se la matematica fosse sbagliata, qualche matematico l’avrebbe scoperto”.  

Il lavoro di Roux e collaboratori concerne quella che loro chiamano la “zona grigia” del differenziamento genetico che conduce alla speciazione, cioè quella fase in cui due popolazioni si sono da poco separate come specie distinte. Il problema centrale della formazione di una specie è – ovviamente – quello di capire come sia possibile che da una comunità riproduttiva se ne formino due o più. È infatti evidente che, se abbiamo a che fare con una comunità riproduttiva, vuol dire che c’è incrocio – scambio di geni, almeno potenziale –  fra i membri di quella comunità. Come è dunque possibile che questo scambio si interrompa, ossia che si formino i cosiddetti “meccanismi di isolamento riproduttivo” se lo scambio ne ostacola continuamente la formazione? La risposta formulata da Ernst Mayr negli anni ’40-’50 del secolo scorso, e largamente accettata dall’evoluzionismo novecentesco, è stata: attraverso la formazione o il superamento di barriere geografiche (dunque un fattore esterno alla specie). Le popolazioni rimaste isolate vanno incontro per definizione a destini genetici diversi su pressione di mutazioni, deriva genetica, selezione naturale, migrazioni, dunque accumulano differenze, e se queste sono sufficienti a generare isolamento riproduttivo, possono nascere specie nuove. La domanda alla quale l’articolo cerca di rispondere non è sul modello di formazione delle specie, ma su che cosa accade dal punto di vista genetico nel corso della speciazione. Per far ciò, gli autori hanno preso in considerazione 61 coppie di specie diverse, o popolazioni diverse della medesima specie, con una varietà sistematica veramente impressionante, dai lombrichi agli echinodermi, dai nematodi, agli uccelli e ai mammiferi. I dati includono 31 famiglie diverse riconducibili a 8 phyla, con 1-8 individui esaminati per ogni specie. Analizzando il trascrittoma (ottenuto ricorrendo a dati disponibili in letteratura per una decina di specie e al sequenziamento diretto dei trascritti nelle restanti ricorrendo ad una metodica nota come RNAseq), gli autori hanno formulato modelli genetici che rispondono a diverse situazioni, da flusso libero di geni fra le specie o popolazioni in esame, fino all’isolamento completo al fine di verificare quante differenze genetiche vi fossero tra specie o tra popolazioni di una stessa specie.  I dati di divergenza genetica sono stati quindi rappresentati tutti assieme, dalle meduse ai gorilla, in un unico grafico con l’idea di verificare la possibilità che ne emergesse un “messaggio” comune sulla genetica della speciazione.

Alcuni dei risultati ottenuti sono abbastanza prevedibili – ad esempio che le specie sono separate da una divergenza genetica superiore a quella delle popolazioni della medesima specie. Ma qui il lavoro del gruppo – costituito da biologi molecolari e bioinformatici – si scontra con quello dei tassonomi più “tradizionali”: fra le 26 coppie di specie linneane riconosciute, 21 ricadono nella zona di elevata divergenza, ma solo 16 di esse erano geneticamente isolate; fra le 35 coppie di popolazioni della medesima specie, 6 sono risultate specie criptiche non riconosciute. È qui abbastanza evidente che, poiché le differenze fra gli esseri viventi sono lì da vedere, non si danno che due possibilità: o il nostro modo di vedere e interpretare le specie – inclusa la nomenclatura linneana – è troppo limitato, oppure i modelli usati dai ricercatori non sono corretti e/o necessitano di ulteriori conferme (quale ad esempio la reale possibilità di incrociarsi delle popolazioni/specie oggetto dello studio).

Ma tornando a ciò che ci dicono i dati: coppie di popolazioni che divergono per meno dello 0,5 % hanno flusso di geni una con l’altra (si veda figura), e dunque appartengono alla stessa specie, anche quando si tratta di popolazioni con divergenze morfologiche cospicue, come nel caso dei gorilla occidentali (Cameroun) e orientali (Congo e Uganda) o di due sottospecie nominali di conigli. Una divergenza genetica superiore al 2% indica invece uno status di specie riproduttivamente isolata, e questo valore, ottenuto in un così importante campione di taxa diversi, sembra suggerire una regola generale, almeno per quel che riguarda gli animali. L’intervallo 0,5-2% rappresenterebbe quindi una zona grigia in cui la separazione non è completa, ma si ha ancora flusso genico, per cui le specie che ricadono in questa zona meriterebbero ulteriori studi. Nel caso ad esempio della coppia di mitili Mytilus galloprovincialis e M. edulis i dati suggeriscono che esista un flusso genico in corso fra specie (una segnalazione per altro già presente in letteratura). Altri casi di flusso genico dimostrato sono più sorprendenti, come quello fra popolazioni europee ed americane del porcellino di terra Armadillidium vulgare o quello fra i macachi Macaca mulatta e M. fascicularis. All’opposto, nella zona grigia troviamo, ad esempio, popolazioni francesi e spagnole del lombrico Allolobophora chlorotica, che dovrebbe invece essere fuori dalla zona grigia a suggerire un processo di speciazione in atto o comunque una loro progressiva divergenza genetica.

Un dato interessante che emerge da questa ricerca è la singolare “uniformità” della zona grigia. È come se, indipendentemente dal modello di speciazione che seguono le varie popolazioni/specie, siano esse cnidari o mammiferi, i valori soglia per identificare da una parte i membri della spessa specie e dall’altra i membri di specie diverse, siano generalizzabili. Scrivono gli autori: “In linea di principio, la propensità a evolvere barriere prezigotiche potrebbe differire fra gruppi di organismi (ad esempio fra quelli che praticano la fecondazione esterna e quelli che si accoppiano). Non abbiamo scoperto nessun effetto significativo delle caratteristiche biologiche e/o ecologiche delle specie, o della tassonomia. Forme altamente polimorfiche che praticano il rilascio dei gameti, e grandi vertebrati poco differenziati fra loro con grande investimento parentale, vanno incontro a un flusso simile di geni a parità di divergenza. Capire se il ritmo di accumulazione di barriere genetiche, il cosiddetto orologio della speciazione, vari fra un gruppo e l’altro è una sfida notevole che richiede la dissezione temporale dello stabilirsi di barriere nei vari gruppi. I metodi attuali […] offrono l’opportunità di studiare a livello genomico l’effetto delle barriere al flusso genico nelle popolazioni naturali, ma non danno risposte sul come e perché le barriere si sono evolute. Tuttavia, i nostri dati indicano una forte relazione generale fra divergenza molecolare e isolamento genetico in una grande diversità di animali, suggerendo che, a livello genomico, la speciazione operi in un modo più o meno simile in taxa distinti, indipendentemente dalle loro peculiarità biologiche ed ecologiche.” Sebbene quindi i meccanismi di speciazione e i tempi con cui essi agiscano, possano variare da caso a caso, i dati pubblicati da Roux e collaboratori suggeriscano che vi siano “regole” ricorrenti (e comuni a tutti i viventi) nei processi di speciazione.

Non mancano ovviamente possibili critiche a questo lavoro, e Jerry Coyne non se la fa scappare: come è stata scelta la base dati? Perché non sono stati inclusi i dati sulle drosofile, presenti in quantità in letteratura, e quelli sulle speciazioni veloci, come nel caso dei ciclidi dei laghi africani (ne avevamo parlato qui)? Tutto vero, ma crediamo che comunque la comunità degli evoluzionisti debba essere molto grata al gruppo franco-austro-svizzero per questo lavoro, i cui dati sono disponibili in rete per ulteriori analisi. Ci sarà spazio, se è il caso, per criticarlo con nuovi o più abbondanti dati derivanti dalla sempre maggiore diffusione di studi basati sul sequenziamento di interi genomi e trascrittomi, ma siamo certi che Roux e collaboratori abbiano dato un contributo interessante. Capita spesso a lezione che uno studente chieda “quanto tempo ci vuole per formare una specie?”. I tempi dipendono da tanti fattori, ma oggi abbiamo una idea un po’ più chiara di quanta divergenza genetica si debba accumulare perché una specie… esca dalla zona grigia.

Marco Ferraguti e Mauro Mandrioli

Riferimento:
Camille Roux, Christelle Fraïsse, Jonathan Romiguier, Yoann Anciaux, Nicolas Galtier, Nicolas Bierne. Shedding light on the grey zone of speciation along a continuum of genomic divergence. PLOS Biology, DOI:10.1371/journal.pbio.2000234 December 27, 2016

L’articolo è liberamente accessibile on line al http://journals.plos.org/plosbiology/article?id=10.1371/journal.pbio.2000234

Immagine: By Hawlitschek O, Nagy ZT, Glaw F (2012) [CC BY 2.5 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.5)], via Wikimedia Commons