Comunicare l’evoluzione e la biodiversità

Una tavola rotonda coordinata da Telmo Pievani nella giornata congiunta dell’8° congresso della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica (SIBE) e della XIII edizione del congresso dell’Associazione Antropologica Italiana (AAI) a Padova affronta l’evoluzione dei temi, delle strategie e delle sfide della comunicazione nelle scienze della vita

Mercoledì 4 settembre, nel contesto dell’8° edizione del Congresso della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica (SIBE[1]) e della XIII edizione del Congresso dell’Associazione Antropologica Italiana (AAI[2]) a Padova, si è svolta nell’Aula Magna di Palazzo Bo una tavola rotonda sulla comunicazione della scienza, coordinata dal Professor Telmo Pievani.

La tavola rotonda ha visto la partecipazione di ospiti illustri del mondo della ricerca e della comunicazione scientifica che hanno sollevato alcune istanze centrali nelle strategie e nelle sfide comunicative delle scienze evolutive nei giorni nostri, in un pomeriggio di dibattito aperto al pubblico. Jacopo Sacquegno, graphic recorder e sketchnoter con una formazione in biologia molecolare, ha illustrato graficamente, e in tempo reale, protagonisti e concetti della tavola rotonda.

Francesco Cavalli-Sforza, filosofo di formazione e Professore di Genetica e Antropologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, è divulgatore di scienza, regista, autore televisivo e di saggi, molti dei quali firmati con il genetista di fama mondiale e suo padre, Luca Luigi Cavalli-Sforza (in onore del quale SIBE ha istituito la prima edizione di un premio scientifico che ne porta il nome) – Chi siamo: la storia della diversità umana (Milano 1993, Torino 2013); Razza o pregiudizio? L’evoluzione umana fra natura e storia (Milano, 1996); La scienza della felicità: ragioni e valori della nostra vita (Milano, 1997); Perché la scienza: l’avventura di un ricercatore (Milano, 2005). Cavalli-Sforza sottolinea l’importanza di due principi essenziali perché non si verifichino cortocircuiti nel processo comunicativo che va da un mittente a un destinatario: “essere chiari ed essere semplici”, adeguando di volta in volta il messaggio alle caratteristiche del pubblico (specifico o generalista che sia). E nella comunicazione invita a conformarsi all’idea – del tutto regolativa – che chi ascolta non abbia un livello di studi superiore alla licenza media (citando, con ironia, un vecchio adagio della Rai: “la scuola media è la media degli italiani”). È così che ha prodotto oltre 15 testi per la scuola media (fondamentale per il primo approccio alla scienza) e il liceo, cercando di integrare alla spiegazione testuale di concetti nuovi illustrazioni e rappresentazioni grafiche per facilitarne l’apprendimento, sfruttando l’efficacia congiunta di linguaggi complementari.

Ma essere chiari e semplici non basta. Cavalli-Sforza invita ad accogliere un’altra “regola d’oro” per una comunicazione efficace: appassionare e coinvolgere chi ascolta, stimolandone al meglio la curiosità. A tal fine può risultare utile raccontare le vicende che hanno preceduto una scoperta scientifica, riassumendo la storia di un percorso di ricerca affinché l’ascoltatore possa riscoprirsi parte integrante di una lunga tradizione.

Nel parlare di scienza è buona norma usare cautela epistemologica, e non seguire il cattivo esempio di quei media che declamano informazioni scientifiche come verità apodittiche o dogmatiche – “il peggior torto che si possa fare alla scienza”, poiché si rischia di generare atteggiamenti di rifiuto e di allontanamento del pubblico. La grande bellezza della scienza consisterebbe così nel riconoscimento della propria transitorietà, in quanto “arte dell’approssimazione” basata su evidenze, la migliore che possiamo permetterci.

Biologa evoluzionista con esperienze di ricerca all’Università di Groningen in Olanda e all’Università di Losanna in Svizzera, Silvia Paolucci ha di recente preso parte attiva nella comunicazione della scienza presso il Laboratorio di Scienze Sperimentali di Foligno (Perugia) dove si occupa di didattica laboratoriale della biologia e di divulgazione scientifica. È membro della management committee del network europeo Euroscitizen[3] che punta a identificare strategie mirate per una efficace comunicazione dell’evoluzione. Paolucci mira a presentare i protagonisti della ricerca e le loro pratiche quotidiane ai più giovani, e ai cosiddetti “educatori formali”, mantenendo un focus preferenziale sulle scienze evolutive. A Foligno porta gli studenti a “mettere le mani in pasta”, avvicinandoli all’esperienza pratica laboratoriale, che è in grado di mostrare loro concretamente come nella scienza non si arrivi mai a una verità assoluta e auto-evidente (così come afferma Cavalli-Sforza) ma a una variabilità di risultati che deve essere interpretata. Ma non sono solamente gli studenti ad averne bisogno. Molti docenti, a meno che non abbiano avuto esperienza diretta della ricerca, non sanno cosa significhi dover affrontare dei risultati “grigi”.

Il metodo scientifico viene conosciuto a scuola solamente a livello teorico: Paolucci sostiene che questo non sia sufficiente per una matura consapevolezza dei processi scientifici. Ne è una riprova il fatto che spesso i ragazzi faticano a capire il concetto di “specie-modello” (come, ad esempio, la famosa Drosophila melanogaster) e come è possibile estendere i fenomeni biologici analizzati anche agli altri organismi. La pratica, sottolinea Paolucci, deve tornare ad essere un concetto- chiave nella didattica e nella comunicazione.

Michele Bellone, biologo e giornalista scientifico con all’attivo numerose collaborazioni con diverse testate, è Direttore editoriale della saggistica italiana di Codice edizioni, e tiene un corso sul rapporto tra scienza e narrativa al Master di comunicazione della scienza Franco Pratticò della SISSA di Trieste. Nella sua esperienza di comunicatore di temi legati alla biologia evoluzionistica, confessa, si è costantemente scontrato con le classiche obiezioni (mai aggiornate) all’evoluzione: “non è una teoria scientifica”, “non è stata mai provata”, ecc. – tutte puntualmente confutate (oramai da decenni) dai risultati della ricerca scientifica. Nel tentativo di dare un volto e un’identità a coloro che portano avanti le critiche al programma di ricerca evoluzionistico, Bellone ha approfondito lo studio della teoria della comunicazione e della sociologia della scienza. È credenza tanto comune quanto errata, infatti, che basti spiegare un concetto perché venga accettato. Molte volte, ricorda Bellone, questo non funziona su temi complessi e divisivi – gli OGM, il riscaldamento globale, l’evoluzione – che sono inevitabilmente intrecciati con altre sfere della nostra vita: la sfera politica, la sfera economica, quella valoriale, o la sfera religiosa. Gli scienziati l’hanno capito da tempo: tutti i processi decisionali (cosiddetti di decision-making) sono caratterizzati da innumerevoli bias – scorciatoie cognitive sviluppatesi nel corso dell’evoluzione che ci fanno prediligere determinate strade rispetto ad altre. Lo facciamo tutti, in maniera più o meno consapevole. Un “radicale”, sostiene Bellone, non lo si convince: non è possibile convincere chi sta conducendo una crociata. Ma quando si discute in un contesto pubblico con coloro che mostrano un atteggiamento antiscientifico – ad una tavola rotonda, così come sul web (altro non è che una piazza pubblica) – è importante ricordare che non ci sono solo loro, ma anche tante altre persone che stanno assistendo al dibattito. Ed è a loro che bisogna rivolgersi, senza cercare di ottenere qualcosa dall’attivista di turno. C’è chi prova un senso di preoccupazione di fronte a una spiegazione scientifica, inclusi coloro che di scienza ne capiscono qualcosa. Bellone sostiene di aver compreso quanto sia importante cambiare approccio, abbandonando toni aggressivi. “La comunicazione è fatta di un mittente e un destinatario, e il destinatario non è un soggetto passivo. Deve esserci un feedback, ascolto e comprensione reciproca”. L’interazione è fondamentale per far passare un messaggio, soprattutto se fortemente controintuitivo come l’evoluzione, per noi che siamo abituati a vedere progettualità dove non ce n’è.

L’antiscientismo, ricorda inoltre Pievani, non è sinonimo di ignoranza, ma è un atteggiamento riscontrabile anche da parte di chi ha un titolo di studio superiore. Evidentemente sono meccanismi ben più complessi ad alimentare la cultura del sospetto che sta investendo tutti i saperi istituzionali (scienza inclusa).

Un altro protagonista della tavola, Marco Ferrari, biologo e giornalista scientifico, attualmente caposervizio scienza per Focus, e autore di L’Evoluzione è ovunque. Vedere il mondo con gli occhi di Darwin (Codice, 2015), sostiene di avere un problema in meno e uno in più rispetto ai suoi colleghi. Il problema in meno è che, in quanto giornalista, non “vede” e non interagisce direttamente con il pubblico dei lettori, aspetto tuttavia bilanciato dal dover passare attraverso una fitta catena di comando editoriale che valuta di volta in volta l’articolo proposto. Non sempre risulta semplice convincere dell’importanza di pubblicare articoli su temi evolutivi. “L’evoluzione ha un problema di immagine: è ingannevolmente semplice” (deceptively simple, come definita dal premio Pulitzer Edward Humes[4]). In molti, tra i lettori, son convinti di avere familiarità con i principi dell’evoluzione: “selezione naturale” e “lotta per la sopravvivenza” sono termini ormai adottati dal linguaggio comune, e spesso impiegati a sproposito. Ma la scienza evolutiva contempla una varietà di fattori – la deriva genica, i fenomeni epigenetici, la costruzione di nicchia, per citarne alcuni – che si intersecano in processi di cambiamento estremamente complessi. È proprio questa ingannevole semplicità che impedisce che il messaggio venga trasmesso efficacemente. Uno dei problemi delle riviste, ricorda Ferrari, è che il messaggio dell’articolo deve essere uno e deve essere lineare. I migliori articoli sono “articoli articolati”: si propongono cioè di spiegare un singolo fenomeno, ma adottando diversi punti di vista. Quest’operazione è estremamente complicata per il giornalista, e lo è pure per i colleghi all’interno di una catena di comando che filtra il prodotto affinché venga raggiunto un equilibrio tra pubblico e redazione.

Francesco Frati, forse il primo Rettore evoluzionista di un’università italiana (l’Università degli Studi di Siena), è Professore Ordinario di Zoologia, esperto di evoluzione e filogenesi molecolare degli artropodi e genetica di popolazioni di collemboli (Esapodi). Gli scienziati, ricorda, fanno di mestiere ciò che nostra specie ha fatto spontaneamente nel corso di migliaia di anni, ricercando soluzioni a problemi e producendo innovazione. Scienza e ricerca sono poi diventate un mestiere, e gli scienziati hanno iniziato a chiudersi nei laboratori, partecipando a dibattiti solamente con i propri colleghi. “Abbiamo bisogno di comunicazione”, sostiene Frati, “perché abbiamo bisogno che l’innovazione prodotta dalla ricerca arrivi al pubblico”. E abbiamo bisogno di cambiare linguaggio (traducendo, in questo caso, “dall’italiano all’italiano”). A tal proposito è fondamentale chiedersi chi sia meglio titolato a produrre questa traduzione, se lo scienziato o il comunicatore.

Inoltre, per fare ricerca sono necessarie risorse. Per poterne ricevere è importante convincere i cittadini della sua rilevanza, affinché comprendano come la ricerca sia una spinta essenziale per il progresso sociale. Un’ulteriore ragione per valorizzare la comunicazione della ricerca è perché, in fondo, “comunicare la scienza è divertentissimo”, sottolinea Frati, “soprattutto quando si osserva la soddisfazione dell’interlocutore nel realizzare di aver capito qualcosa di nuovo”. La comunicazione dell’evoluzione presenta sicuramente delle difficoltà specifiche. È più difficile perché è necessario insegnare un ragionamento, spesso in assenza di esperimenti. Ed è necessario ammettere nella spiegazione scientifica un certo grado di incertezza.

Alla tavola rotonda ha preso parte anche il noto paleoantropologo Giorgio Manzi, un ricercatore prestato con successo alla comunicazione, e che ormai da tempo racconta la scienza su periodici, quotidiani, radio, TV e siti web, e dal dicembre 2010 tiene una rubrica mensile su Le Scienze. I numerosi libri divulgativi pubblicati (il più recente è Ultime notizie sull’evoluzione umana, Il Mulino 2017) testimoniano la volontà di restituire al pubblico quanto appreso in anni di ricerca. Manzi sottolinea l’importanza di trasmettere e comunicare la ricerca, soprattutto in Italia dove la cultura scientifica è bistrattata dalla scuola, dai media e dall’attenzione popolare. Nei licei scientifici, osserva, molte ore sono dedicate all’insegnamento del latino. E questo è importantissimo: le versioni di latino hanno molto in comune con l’esperimento scientifico, e con il testare diversi modelli interpretativi.  Ma sono necessarie molte altre ore, sottolinea Manzi, per insegnare le scienze e la biologia, “la regina delle scienze”, oramai esplosa negli ultimi anni. Ma pare che nessuno se ne sia accorto. In questo la divulgazione scientifica può svolgere un fondamentale ruolo vicariante rispetto alla scuola.

Si fa divulgazione scientifica pensando agli adulti. Forse però, continua Manzi, sarebbe meglio rivolgersi ai bambini di otto anni, in quella finestra sensibile dell’età evolutiva fondamentale per avvicinarli alla scienza. Dal punto di vista del successo comunicativo, Manzi spezza una lancia in favore dell’antropologia e della sua divulgazione. Raccontare l’evoluzione e la diversità umana può funzionare (e funziona) per vari motivi, in primis perché riguarda noi stessi. E attraverso questo canale possono passare diverse informazioni scientifiche ad ampio raggio, perché l’evoluzione umana è esemplificativa dei meccanismi di studio dei processi evolutivi stessi. L’antropologia è una scienza che coordina numerosi approcci scientifici nel tentativo di comprendere noi stessi. Negli ultimi decenni siamo stati fortunati ad assistere a grossi progressi, tra cui le nuove tecniche di acquisizione della morfologia in 3D, che stanno rivoluzionando la paleoantropologia, o l’ingresso della biologia molecolare e della genetica nello studio delle forme del passato. L’antropologia, sottolinea Manzi, non è una scienza pura, ma una scienza applicata alla cultura.

Nel corso del dibattito e degli interventi del pubblico si è discusso del problema dello scollamento tra dato scientifico e azione rispetto all’urgenza (il cambiamento climatico come iperoggetto che sfugge alle nostre capacità di comprensione), e della delegittimazione dei comunicatori della scienza (ma a detta di qualcuno, anche degli scienziati stessi). È emerso come la comunicazione della scienza vada intesa come un ecosistema (Bellone) che si basa su diversi attori, e che ha per protagonisti ricercatori, giornalisti, divulgatori o coloro che sono impegnati nella comunicazione istituzionale. Ma perché questo ecosistema funzioni, è necessario valorizzare la trasparenza nella comunicazione, e ricostituire la fiducia verso i suoi protagonisti.

Andra Meneganzin, da La Mela di Newton


NOTE

[1] Link al sito del Congresso SIBE 2019: https://sibe2019.sibe-iseb.it.

[2] Link al sito del Congresso AAI 2019 https://www.aaiconference2019.it/

[3] http://www.euroscitizen.eu

[4] Humes, Edward. 2007. Monkey Girl: Evolution, Education, Religion, and the Battle for America’s Soul. New York: Ecco, 119

Immagine: © Jacopo Sacquegno, Graphic Recorder di Sibe2019