Congresso della Canadian Society for Ecology and Evolution

Il congresso della Canadian Society for Ecology and Evolution (CSEE), organizzato da Sally Otto e John Shurin e svoltosi dall’11 al 14 maggio a Vancouver nel campus della University of British Columbia, ha avuto oltre 500 iscritti, un numero notevole per una societa’ che ha solo 3 anni in una nazione con una popolazione di circa 30 milioni. Gli ultimi

Il congresso della Canadian Society for Ecology and Evolution (CSEE), organizzato da Sally Otto e John Shurin e svoltosi dall’11 al 14 maggio a Vancouver nel campus della University of British Columbia, ha avuto oltre 500 iscritti, un numero notevole per una societa’ che ha solo 3 anni in una nazione con una popolazione di circa 30 milioni. Gli ultimi due congressi CSEE hanno avuto ottime sessioni di biologia della popolazione, genetica quantitativa, comportamento, e selezione sessuale, mentre invece sono state quasi assenti sistematica, paleontologia e evodevo.

Durante il Meeting 2008 si sono svolti 3 simposi, che hanno visto diversi speakers internazionali. Il primo simposio coincideva con il lancio della nuova rivista Evolutionary Applications, pubblicata da Blackwell, e edita da due ricercatori Canadesi, Louis Bernatchez (Université Laval) e Michelle Tseng (UBC). Le presentazioni al simposio hanno spaziato dal ruolo dell’influenza antropogenica su varie popolazioni di pesci (specialmente salmonidi), un tema che è stato toccato anche in altri simposi e sessioni, all’utilizzo di teorie evolutive per il biocontrollo al ruolo del global warming e la biologia della conservazione. Molti degli interventi presentati sono stati pubblicati nei primi due numeri della rivista, che sono accessibili gratuitamente sul sito della Blackwell, alla URL www.blackwell-synergy.com/toc/eva/1/1

Il secondo simposio era in onore di Ram Myers, uno dei principali biologi della conservazione che si occupava prevalentemente di fisheries. Prima della sua scomparsa nel 2007 a causa di un tumore, Myers dirigeva uno dei migliori gruppi di ricerca su fishery biology a Dalhousie University ad Halifax. Diversi ex studenti e postdoc di Myers hanno presentato contributi che evidenziavano l’impatto enorme che Myers ha avuto sulla biologia della conservazione. I PDf degli articoli di Myers e collaboratori ossono essere scaricati dal sito www.marinebiodiversity.ca/RAMlegacy

Tra gli interventi che ho trovato piu’ interessanti quello di Julia Baum, adesso allo Scripps a San Diego sugli effetti della pesca dei grandi squali per gli ecosistemi costieri. Uno dei casi più interessanti (e preoccupanti) presentati è stato quello sugli squali martello (famiglia Sphyrnidae). Le popolazioni di squalo martello smerlato (Sphyrna lewini) sono diminuite di oltre il 90% lungo le coste atlantiche degli USA. Come risultato, diverse specie di razze, che erano la preda principale di questi squali, sono letteralmente esplose, aumentando in 30 anni da circa 4 a circa 40 milioni di individui. Questo ha causato un collasso completo delle popolazioni di vari bivalvi, che rappresentano la dieta principale delle razze, con notevole danno non solo per gli ecosistemi costieri, ma anche per molti pescatori che dipendevano dalla pesca dei mollluschi (su questa storia ha scritto anche Olivia Judson nel suo articolo settimanale sul New York Times questo martedì).

Due atri interventi molto interessanti sono stati quelli di Robin Waples e Daniel Pauly. Waples, del National Marine Fisheries Service di Seattle, che ha presentato vari casi di rapida evoluzione in popolazioni di salmonidi, che si sono adattate ad ambienti altamente antropogenizzati nel giro di solo 50 anni, alterando vari aspetti della loro life history e comportamento. Adesso che esistono progetti per tentare di riportare vari corsi d’acqua a condizioni più simili a quelle che esistevano prima dell’arrivo degli europei nella parte occidentale degli USA, la preoccupazione di molti biologi è che queste popolazioni non siano più in grando di sopravvivere e possano andare estinte – paradossalmente – non a causa del fatto che il loro habitat è stato trasformato dall’uomo, ma perchè è troppo “naturale”.

Pauly, forse il principale fisheries biologist al mondo e uno dei fondatori del sito fishbase.org, ha presentato un quadro abbastanza preoccupante dei principali stock marini. Vari studi ormai sembrano evidenziare come molte popolazioni di pesci sono statie talmente sfruttate che si rischia un collasso completo di molte fishieries entro il 2050. Come vari casi hanno dimostrato (ad esempio i merluzzi della costa est del Canada o i clupeidi del Peru), interrompere la pesca può non essere sufficiente per garantire il recupero di stock ittici, una volta che le popolazioni sono scese sotto a certi livelli, a causa della complessita’ delle interazioni ecologiche, dato che una specie potrebbe essere stata rimpiazzata “ecologicamente” da altre – meno importanti commercialmente e quindi meno soggette all’azione umana – e quindi impossibilitata a ritornare a livelli pre-umani. Pauly è anche uno dei principali sostenitori del concetto delle shifting baselines, insieme a Jeremy Jackson dello Scripps, e chi si interessa di conservazione puo’ trovare moltissimo materiale utile su questo concetto al sito www.shiftingbaselines.org/index.php.

Uno dei punti principali sui quali tutti i partecipanti al simposio erano in accordo è stato il fatto che ormai le varie industrie della pesca sono un vero e proprio anacronismo. Commercialmente sono quasi tutte in perdita, e riescono a sopravvivere solo grazie a sussidi governativi. Da un punto di vista ecologico sono un distastro, con una larghissima maggioranza delle popolazioni commercialmente sfruttate che ormai sono al collasso (se non già collassate) con perdite di oltre il 90% degli stock per quasi tutti i pesci di grandi dimensioni. E il problema delle bycatch che diventa sempre più grande. Ormai oltre il 70% del pescato viene gettato via perchè commercialemnte non utile, e questa percentuale invece di diminuire, come ci si attenderebbe grazie a sviluppi tecnologici, continua ad aumentare. Da qualsiasi punto di vista si voglia vedere ormai la maggior parte delle industrie di pesca andrebbero chiuse. Invece la maggior parte dei governi occidentali continuano a immettere soldi in queste attività con il solo scopo di tenere in attivita’ poche migliaia di lavoratori che probabilmente potrebbero essere riconvertiti ad altre attività con costi molto minori.

Francesco Santini

Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons