Evolvibilità: un concetto paradossale o innovativo nella biologia evoluzionistica moderna?

La comprensione dei meccanismi implicati nell’evoluzione delle specie è indubbiamente uno degli obiettivi primari dell’attuale ricerca in ambito evoluzionistico. Tuttavia, sebbene siano stati identificati i meccanismi preposti all’insorgere della variabilità genetica, non è chiaro come ciascuna popolazione o specie riesca a possedere quel minimo di variabilità genetica utile per assicurarsi la sopravvivenza o, in alternativa, se tutto questo processo si

La comprensione dei meccanismi implicati nell’evoluzione delle specie è indubbiamente uno degli obiettivi primari dell’attuale ricerca in ambito evoluzionistico. Tuttavia, sebbene siano stati identificati i meccanismi preposti all’insorgere della variabilità genetica, non è chiaro come ciascuna popolazione o specie riesca a possedere quel minimo di variabilità genetica utile per assicurarsi la sopravvivenza o, in alternativa, se tutto questo processo si basi sul caso (Kirschner e Gerhart, 1998).

A questo proposito, nel corso degli ultimi anni un numero progressivamente crescente di biologi evoluzionisti ha fatto proprio il concetto di evolvibilità, dove tale termine si riferisce all’abilità di un organismo di evolvere attraverso meccanismi il cui fine è creare la variabilità genetica necessaria ad ogni popolazione/specie per la sopravvivenza (Dawkins, 1989; Kirschner e Gerhart, 1998; Poole et al., 2003; Petrie e Roberts, 2007). Il concetto di evolvibilità si basa, quindi, sulla presenza di meccanismi molecolari specificatamente implicati nella creazione di mutazioni e riarrangiamenti molecolari in grado di determinare la comparsa di una variabilità fenotipica selezionabile dall’ambiente in modo vantaggioso (Kirschner e Gerhart, 1998). L’evolvibilità sembra, inoltre, conferire un vantaggio nel futuro piuttosto che un beneficio nel presente (Kirschner e Gerhart, 1998).

La definizione di evolvibilità sinora fornita (e spesso citata) è tuttavia molto generica e ciò deriva dalla presenza in letteratura di numerosissime accezioni distinte con cui questo termine è usato, tanto che si può affermare, senza temere di essere smentiti, che le definizioni date per il termine evolvibilità siano numerose tanto quanto sono i libri e gli articoli pubblicati su questo argomento (Sniegowski e Murphy, 2006). Ma a cosa si deve questa difficoltà nel definire in modo univoco cosa sia l’evolvibilità? L’analisi dei diversi articoli pubblicati mostra come l’evolvibilità raggruppi tutti i meccanismi implicati nell’insorgenza di mutazioni o riarrangiamenti che avvengono a livello di genoma/organismo/popolazione/specie. Questo significa che con il termine evolvibilità si raggruppano, in modo del tutto artificioso, meccanismi tra di loro indipendenti (quali i trasposoni, i prioni, i sistemi in grado di indurre mutazioni nei batteri, etc…) che hanno in comune solo il fatto di riorganizzare il genoma (Sniegowski e Murphy, 2006).

Il concetto di evolvibiltà non era stato inizialmente proposto per spiegare l’evoluzione molecolare, ma per capire l’origine e l’evoluzione di alcuni tratti morfologici a livello dei quali l’evolvibilità sembrava garantire vantaggi evidenti. A questo proposito lo stesso Stephen J. Gould (2002) riteneva che l’evolvibilità potesse essere un concetto coerente con le teorie darwiniane nel senso che ben si concatenava con il concetto di exaptation, ovvero con la cooptazione verso specifiche funzioni di caratteri inizialmente evolutisi per altri motivi. Secondo Gould, l’evolvibilità si può concretizzare nel riutilizzo di strutture presenti per svolgere funzioni nuove nel futuro andando, quindi, a risolvere l’apparente paradosso che l’evolvibilità generi strutture che saranno oggetto della selezione nel futuro e non nel presente. Per esemplificare il concetto di exaptation un esempio potrebbe essere l’origine dell’ala, la quale ancestralmente funzionava probabilmente come struttura per la termoregolazione per essere stata poi “riciclata” per il volo secondo una sorta di bricolage (Gould, 1991).

A livello molecolare, la valenza che Gould sembra attribuire al concetto di evolvibilità sarebbe quindi legata ad una sorta di “flessibilità intrinseca” dei network genici preposti al realizzare determinate strutture. Secondo questa valenza, l’evolvibilità diverrebbe quindi una sorta di concetto opposto a quello di costrizione e vincolo ovvero meno costrizioni funzionali e vincoli vi sono su un network genico e maggiori saranno i gradi di libertà e quindi l’evolvibilità del sistema. Questa accezione dell’evolvibilità è stata recentemente ripresa da Aldana e colleghi (2007) i quali propongono che eventuali perturbazioni dei network genici possano produrre quella variabilità necessaria per sviluppare nuove funzioni e/o favorire l’adattamento a nuovi ambienti o, in alternativa, produrre strutture al momento non utili ma che potrebbero essere “exattate” verso funzioni utili nel futuro.

L’idea che fluttuazioni/perturbazioni di network genici possano portare ad “innovazioni” strutturali è indubbiamente vera e rappresenta uno dei punti cardine della moderna evodevo. Tuttavia, come indicato ad esempio da Sean B. Carroll (2002) e Eric H. Davidson (2006) l’evoluzione di tali network, così come le innovazioni introdotte dall’evo-devo, possono essere spiegate senza fare alcun ricorso al concetto di evolvibilità.
Da questa analisi emerge, quindi, una estrema difficoltà nel dare una definizione univoca di evolvibilità, poiché tale concetto risulta usato in una vasta gamma di situazioni indipendenti, non correlate né correlabili, che risultano raggruppate in modo artificioso. Curiosamente, un aspetto comune a tutti questi fenomeni è che il concetto di evolvibilità non risulta mai essere realmente necessario per spiegare tali eventi.

Il secondo aspetto in cui il concetto di evolvibilità risulta fragile è legato all’ipotesi che valga sempre la regola che maggior variabilità genetica è presente, migliore sarà l’adattamento di una specie all’ambiente. Questa regola generale è sicuramente vera, ma il concetto di evolvibilità si inserisce in un contesto in cui le mutazioni spontanee non sono ritenute sufficienti per assicurare la sopravvivenza in un ambiente in continuo cambiamento.

Sebbene possa essere condivisile l’idea generale che all’aumentare del numero di mutazioni possano crescere le possibilità di averne alcune vantaggiose, è però evidente che ciascun sistema deve assicurare il mantenimento della propria omeostasi ovvero troppe mutazioni diverrebbero un’arma pericolosa, oltre al fatto che non tutte le mutazioni che avvengono sono realmente utili ad un fine evolutivo. Per risolvere questo problema si deve quindi pensare che i sistemi molecolari alla base dell’evolvibilità siano geneticamente definiti e regolati, mostrando una forte natura teleologica del concetto di evolvibilità. L’esistenza dell’evolvibilità è stata dimostrata da diversi Autori, i cui modelli matematici confermavano il principio per cui la presenza di una adeguata variabilità genetica può influenzare la capacità di un sistema di evolvere (Dawkins, 1989; Earl e Deem, 2004). Questa non è tuttavia una conclusione sorprendente, poiché è una delle regole basilari del processo evolutivo. Cosa aggiunge quindi il concetto di evolvibilità?

Un punto debole dei modelli matematici proposti è che essi basano sull’ipotesi che per evolvere si debba avere variabilità genetica e quindi evolva solo chi ha variabilità genetica, seguendo una sorta di circolo vizioso da cui concludere che l’evolvibilità esiste perché in caso contrario le specie viventi non si sarebbero adattate ad un ambiente in continuo cambiamento.

Testi più recenti (riassunti nella review di Sniegowski e Murphy, 2006) distinguono poi tra variabilità genetica generale e variabilità genetica selezionabile indicando che l’evolvibilità favorirebbe l’accumulo di variabilità genetica selezionabile, ovvero i processi di mutazioni sarebbero guidati. Questa definizione è purtroppo artificiosa, poiché presuppone che ogni organismo possa conoscere su quali geni o network genici agire, introducendo nuovamente una forte connotazione finalistica al concetto di evolvibilità. Tra l’altro il finalismo non si manifesterebbe solamente a livello dei geni da mutare, ma anche distinguendo i tessuti in cui è utile realizzare le mutazioni, affinché esse possano essere utili ad un fine evolutivo. In particolare il concetto di evolvibilità risulta di difficile applicazione agli organismi pluricellulari in cui esistono complesse reti geniche e numerosi tessuti differenziati, in cui le stesse mutazioni possono avere conseguenze molto diverse. Non sorprende quindi notare che il concetto di evolvibilità sia stato primariamente sviluppato nei batteri (in cui può avere in parte una sua valenza) per esser poi impropriamente, e forse temerariamente, esteso a sistemi multicellulari.

Un altro aspetto che colpisce a tale proposito è che ogni organismo dovrebbe essere in grado di cambiare i target delle mutazioni andando a modificare quei geni che di volta in volta sarà utile cambiare per assicurare un futuro successo a livello di selezione e quindi favorenti l’adattamento.

La necessità di introdurre la differenza tra variabilità genetica generale (che avviene su geni che sono neutri rispetto alla selezione naturale o che avviene in tessuti non implicati nel vaglio della selezione naturale) deriva, come sottolineato da Sniegowski e Murphy (2006), dalla necessità di capire come abbiano fatto le popolazioni e le specie esistenti ad assicurarsi quella variabilità genetica minima per permettere loro di evolvere.
In realtà, questa distinzione parte dalla certezza che tutte le popolazioni e specie debbano avere una data variabilità genetica minima, per cui non possono non avere meccanismi atti ad assicurare una adeguata variabilità genetica (Nehaniv, 2003). Al contrario, la biologia evoluzionistica ci insegna che molto spesso le popolazioni e le specie non hanno la variabilità genetica necessaria per sopravvivere e quindi si estinguono. In particolare, come suggerito da Raup (1991), i fenomeni di estinzione sono assai più frequenti di quanto non si pensi ad indicare che se i meccanismi di evolvibilità esistessero essi risulterebbero molto poco efficaci a fronte di una stima del 99.9% di percentuale di specie estinte rispetto a quelle comparse nel corso della storia della vita sulla terra.

L’idea che l’evoluzione fosse basata sull’intervento del caso per generare la variabilità necessaria per evolvere ha spinto molti Autori a confidare nell’esistenza di un confortante concetto di evolvibilità che ci rassicuri rispetto al nostro futuro evolutivo, piuttosto che fare affidamento su una fragile e lunga attesa cieca di una “giusta” mutazione casuale. La fiducia in questo concetto è stata tale che alcuni Autori sono addirittura arrivati a sostenere che l’esistenza dell’evolvibilità dia finalmente una risposta al principale enigma della biologia evoluzionistica ovvero come le specie si assicurino una adeguata variabilità genetica (True e Lindquist, 2000; Brookfield, 2001; Partridge, 2000).

A dispetto di questo enorme impatto, il concetto di evolvibilità si è rivelato sinora fragile, controverso e sperimentalmente non supportato. Si deve, inoltre, aggiungere che la scarsa solidità e definizione di questo concetto, assieme alla sua “comodità” per i biologi evoluzionisti, può portare a danneggiare la biologia evoluzionistica non solo perché esso si presta ad essere distorto (Dembski, 2003), ma anche perché potrebbe sembrare un modo artificioso per riempire vuoti, nella realtà non esistenti, della teoria dell’evoluzione (Behe, 2007). William A. Dembski (2003) ad esempio ha scritto che “l’esistenza di limiti all’evolvibilità dovuti a vincoli meccanici costituisce una prova indiretta a sostegno dell’intelligent design”.

Nel complesso, quindi, mi risulta molto difficile condividere l’entusiasmo mostrato da diversi Autori per l’evolvibilità che, al momento, vedo come un concetto più ingombrante che realmente necessario.

Mauro Mandrioli

Riferimenti bibliografici

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