Ibridazione tra specie e poliploidia: quali aggiustamenti evolutivi per una felice convivenza tra geni?

specie xenopus laevis

Il genoma della rana Xenopus laevis è nato dalla fusione di quelli di due specie distinte. I geni dei due progenitori, però, hanno seguito storie evolutive molto diverse

Nel corso dell’evoluzione dei genomi eucarioti si sono verificati diversi eventi che hanno moltiplicato il numero di set di cromosomi (solitamente 2). Ad esempio, due round di duplicazione dell’intero genoma sarebbero alla base dell’evoluzione dei vertebrati. La poliploidia è rara in rettili, uccelli e mammiferi, ma comune in pesci, anfibi e piante, e fornisce materia prima per l’evoluzione di nuovi caratteri e funzioni. Infatti, con un genoma raddoppiato i geni possono “sperimentare” nuovi percorsi evolutivi senza che la loro funzione venga a mancare nell’organismo, perché garantita da quelli simili presenti in un altro set di cromosomi. Il sovraffollamento genico che si genera in questo modo costringe comunque i genomi a cooperare per limare eventuali incompatibilità, come una presenza eccessiva dei prodotti dei geni.

La nota rana Xenopus laevis fa parte di una serie di specie che hanno un diverso numero di set di cromosomi, dalla diploidia di X. tropicalis fino alla dodecaploidia (12n) in altre specie. Per questo, rappresenta un perfetto esperimento naturale per studiare l’impatto della duplicazione genica. È stato proposto che il suo genoma allotetraploide (4n) sia nato dalla fusione di quello dei genomi appartenenti a due diversi progenitori diploidi (2n). In seguito all’ibridazione di queste due specie, il genoma risultante sarebbe poi stato raddoppiato per permettere il corretto appaiamento dei diversi cromosomi durante la meiosi.

In un articolo pubblicato sulla rivista Nature, un gruppo di ricercatori ha sequenziato il genoma di X. laevis e l’insieme dell’RNA prodotto nei diversi stadi di sviluppo. Comparando poi il genoma con quello di una specie affine (X. tropicalis), questi ricercatori hanno osservato come per migliaia di geni esistessero due ortologhi. Inoltre, l’insieme dei cromosomi di questa rana poteva essere suddiviso in due serie omeologhe (cromosomi simili tra loro ma provenienti da due specie diverse), una con cromosomi mediamente più lunghi (L) dell’altra (S).

Infatti, sebbene abbiano convissuto nello stesso nucleo, i due “sottogenomi” non si erano fusi tra loro (forse perché le due specie erano già abbastanza differenti), e sono cambiati in modo asimmetrico. Quello S aveva subito molti cambiamenti nella struttura dei cromosomi, nella regolazione dell’espressione dei geni e nel loro numero. Molti geni erano andati persi per delezione, mentre altri erano diventati pseudogeni (geni non più in funzione). L’altro “sottogenoma”, invece, era rimasto maggiormente integro, e più simile a quello ancestrale.

IL gruppo internazionale coordinato da Daniel S. Rokhsar ha stabilito che le due serie di cromosomi omeologhi discendevano effettivamente da due distinti progenitori diploidi. Inoltre, analisi filogenetiche suggerivano che le due specie progenitrici si fossero separate circa 34 milioni di anni fa, per poi ibridarsi circa 17-18 milioni di anni fa. Alcuni geni coinvolti nelle stesse funzioni erano stati conservati quasi per intero, anche se in numero doppio (37 geni Hox su 38 erano stati mantenuti nel genoma di questa specie tetraploide). Al contrario, geni omeologhi con altre funzioni sono stati persi, probabilmente per via dell’eccessiva (raddoppiata) abbondanza dei loro prodotti.

Altri geni omeologhi, invece, sono stati mantenuti perché hanno assunto funzioni diverse. In questi casi i geni possono dividersi i compiti che ciascuno di loro svolgeva da solo nelle due specie progenitrici, oppure uno dei due può assumere funzioni completamente nuove. Infatti, migliaia di paia di geni omeologhi mostravano differenze nei livelli di espressione oppure nella regione e nel momento preciso in cui venivano attivati.

Riferimenti:
Session et al. Genome evolution in the allotetraploid frog Xenopus laevis. Nature. 2016;538: 336-343. doi: 10.1038/nature19840

Immagine: Karel Randák