Il falò (immotivato) del darwinismo

Tom Wolfe scrive che la selezione naturale non spiega il linguaggio umano. Ma il suo pamphlet manca di argomentazioni serie: è solo un film western con il padre dell’evoluzione e Noam Chomsky nella parte dei cattivi

Da La Lettura, supplemento culturale de Il Corriere della Sera, 18 dicembre 2016, p. 9.

La scintilla scocca quando uno scrittore dalla penna acuminata, girovagando in rete, incappa in un articolo del 2014 dal titolo “Il mistero dell’evoluzione del linguaggio”. Quel saggio firmato da illustri studiosi, tra i quali Noam Chomsky, è stato nel frattempo criticato per il suo immotivato pessimismo e non ha avuto alcun impatto sulla ricerca scientifica, ma si sa che in rete il successo virale di un’idea è spesso indipendente dai suoi riscontri reali. Tanto basta perché il nostro autore, Tom Wolfe, castigatore di ogni snobismo intellettuale politicamente corretto, prenda spunto da quel testo per confermare le sue credenze e per intraprendere un viaggio fantastico nella storia del pensiero.

La prospettiva di partenza è chiara: il linguaggio per Wolfe è la caratteristica precipua dell’umanità, l’artefatto supremo, quella forza immane che ci eleva per sempre al di sopra degli animali, che ci fa dominare il mondo, che apre spazi sconfinati di immaginazione e creatività. Di questo regno superiore della parola, la scienza in un secolo e mezzo di indagini evoluzionistiche non ha capito ancora niente. La cronaca del fallimento deve partire, secondo l’autore del Falò delle Vanità, dalla disputa ottocentesca tra Charles Darwin e il suo collega Alfred R. Wallace. Con abile drammatizzazione tendenziosa, nel libro Il regno della parola (Giunti) Wolfe dipinge il primo come un altezzoso gentiluomo vittoriano che vive di rendita “sovvenzionato dal paparino”, non ha mai lavorato, ha sposato una “insipida cugina”, è un potente e scaltro manovratore, mentre il secondo è un giovanotto coraggioso e povero che si è fatto da solo, un outsider snobbato dai benpensanti come se fosse un insignificante acchiappamosche. Wolfe è bravissimo nel selezionare brandelli di fonti storiografiche per avvalorare le sue tesi preconcette. Estrapola passaggi dalle lettere private di Darwin per metterlo in cattiva luce. Così la storia diventa semplice: i buoni da una parte e i reprobi dall’altra, uno schema narrativo di imperitura fortuna oltreoceano.

Naturalmente il quadretto del complotto contro Wallace è del tutto caricaturale, ma poco importa. La tecnica è quella di attirare simpatie istintive sul povero Wallace per dimostrare con ciò stesso che egli aveva ragione nel merito, asserendo nel 1869 che il linguaggio umano non avrebbe mai potuto ricevere una spiegazione scientifica e naturalistica poiché uno iato incolmabile separa l’uomo dalle bestie. Come in ogni buon film western che si rispetti, Darwin quindi diventa per contrasto un razzista, un ipocondriaco indolente, un naturalista “arso dall’ambizione” ma terrorizzato dalla Chiesa, che si convinse delle origini animali di Homo sapiens non facendo esperimenti e accumulando osservazioni e prove convergenti per una vita intera (come fu) ma spiando una femmina di orango allo zoo. La sceneggiatura è fatta: il prode Wallace demolisce una volta per tutte la teoria darwiniana, ma il barbuto naturalista chiuso nella sua reggia di campagna rabbiosamente non vuole ammetterlo.

A detta di Wolfe la teoria dell’evoluzione – per inciso, un programma di ricerca scientifico avvalorato da milioni di evidenze empiriche di ogni genere che sta alla base dell’intera biologia contemporanea – è l’equivalente occidentale di una cosmogonia mitologica, una narrazione delle origini come ve ne sono in ogni cultura umana. Insomma, è un’ipotesi non verificabile, “sincera ma semplice letteratura” (come anche la teoria del Big Bang), imposta poi a tutti come scienza di regime solo perché i dissenzienti vengono incriminati dall’inquisizione darwiniana. Per la gioia di tutti i creazionisti del mondo, ecco la solenne chiusa di Wolfe: “dire che gli animali si sono evoluti nell’uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto nel David di Michelangelo”. E così l’anticonformista rivela tutto il suo conformismo.

Wolfe ridicolizza qualsiasi ipotesi sia mai stata concepita sull’evoluzione del linguaggio umano a partire da precursori animali (gesti, vocalizzi, interazioni madri-figli, etc.). Lo stesso trattamento riserva alle ipotesi sull’evoluzione del senso morale, estetico e religioso: tutte favolette senza prove, una sequela di fallimenti. La grammatica ricorsiva innata di Noam Chomsky – dipinto da Wolfe come un altro snob che al pari di Darwin si è guardato bene dal lavorare sul campo – non è affatto universale e non ha basi biologiche note. Il linguaggio è piuttosto un artefatto culturale, come Wolfe pretende che abbiano dimostrato gli studi del linguista e antropologo Daniel Everett, un altro eroe positivo che si è fatto da solo, sudando nel fango e sfidando l’establishment, come Wallace. Pare infatti che la stranissima lingua di una tribù amazzonica, i pirahã, non abbia la ricorsività gerarchica prevista dal dogma chomskiano.

Ecco allora che lo schema dei buoni e dei cattivi si ripete. Wolfe sposa incondizionatamente le tesi di Everett, dichiarando la morte della grammatica generativa universale. Mentre l’intellettuale anarchico e anticapitalista Chomsky se ne stava comodo nel suo studio del MIT circondato da adepti, senza conoscere una sola lingua reale oltre alla sua, l’ex missionario Everett si trasferiva con la famiglia nella giungla, rischiando la pelle tra mille peripezie vissute al cardiopalma, imparando la lingua e la cultura dei nativi, sporcandosi insomma le mani sul terreno. Poi torna, scrive un bestseller (“Non dormire, ci sono i serpenti”) e getta nel panico i chomskiani arroccati nelle loro verità.

Wolfe dimentica che il “radical chic” Chomsky è sempre stato scettico sulle possibilità di ricostruire la storia evolutiva del linguaggio umano, quindi associarlo a Darwin è quanto meno strano. Ma nel libro c’è anche una pars construens. Wolfe ritiene che essere uno scrittore sia condizione sufficiente per formulare una teoria sul linguaggio e nell’ultimo capitolo spiega che la parola è un espediente mnemonico, una tecnica per ricordare, uno strumento culturale che dunque si è evoluto (non si sa come) dal nulla. Al che, però, non si capisce perché compiacersi del persistente “mistero del linguaggio”, visto che egli presume di sapere che cosa sia e a che cosa serva. La tesi del linguaggio umano come regno extranaturale continua peraltro a ricevere smentite: è di pochi giorni fa la pubblicazione di una ricerca, coordinata da Tecumseh Fitch, in cui si mostra che il tratto vocale delle scimmie potrebbe produrre una gamma di suoni sufficientemente articolata per il linguaggio. Come aveva ipotizzato Darwin, ciò che manca ai nostri cugini primati non è l’anatomia vocale, ma un cervello in grado di controllare i suoni.

Wolfe è maestro di digressioni e sarcasmi, che tuttavia spesso lo tradiscono, al punto che prende un buon numero di cantonate storiografiche (come quella secondo cui Darwin avrebbe ricevuto, ma non letto, il saggio di Mendel sulle leggi dell’ereditarietà). In sintesi, Tom Wolfe ha scritto la prematura cronaca di un fallimento inesistente, una fiction politicamente scorretta i cui contenuti storiografici e “scientifici” possiamo serenamente consegnare al falò delle vanità. Resta la qualità indiscutibile della sua narrazione, a tratti fulminante, suprema esemplificazione di quanto proprio il linguaggio umano possa indulgere nell’autosuggestione, facendoci sembrare realtà ciò che è soltanto un nostro desiderio.

Telmo Pievani