La marcia del progresso e il paradosso della divulgazione

Come i quotidiani contribuiscono a propagare una falsa idea dell’evoluzione: la marcia del progresso verso l’uomo moderno

Sul quotidiano La Repubblica del 28/1/2015: Scoperto il cranio umano che segna il passaggio dai Neanderthal all’uomo moderno. Non so che cosa intendesse comunicare chi ha scritto il titolo, ma quello che effettivamente comunica l’espressione “che segna il passaggio dai Neanderthal all’uomo moderno” è inequivocabilmente questa rappresentazione (vedi figura), che conosciamo attraverso S. Gould come la “marcia del progresso”. Il titolo, che è l’unica cosa che la maggior parte dei lettori legge, contraddice perfino il contenuto dell’articolo stesso che fa riferimento alla “coesistenza” o alla possibilità di un “incrocio” tra le due specie.

Non mi occuperò qui di dare l’informazione corretta sull’argomento, perché Pikaia lo ha già fatto. Semmai vorrei mettere a fuoco di che tipo di scorrettezza si tratta e occuparmi di nuovo del problema, ormai un vero cancro culturale, della divulgazione, che è il contenitore delle singole scorrettezze che a ogni passo si ripresentano. Per quanto riguarda il più diffuso quotidiano italiano, la mia triste impressione è di essere tornato ai tempi di Enrico Franceschini (si veda qui), che si era attribuito la missione di istruire il pubblico sulla scienza evolutiva, anzi sui “misteri” dell’evoluzione. I suoi articoli su La Repubblica erano inesorabilmente illustrati dall’immagine della “marcia del progresso”. Il dubbio, essendo lui avvocato, è che fosse convinto che il modello dell’evoluzione umana è la marcia del progresso, in cui si passa dal neanderthalensis al sapiens attraverso qualche forma di trasformazione (forse metamorfosi, come nel caso del girino che diventa rana).

Poi l’avvocato ha ceduto il posto a una persona di formazione scientifica e la comunicazione de La Repubblica in fatto di scienze ha fatto un salto di qualità. Ma probabilmente, come spesso accade, la nuova comunicatrice scientifica non ha la responsabilità di redazione, non compone neppure i titoli dei propri articoli, e non si occupa delle segnalazioni. Dunque abbiamo ancora una volta a che fare con il “paradosso della divulgazione”: per definizione di “divulgazione” i destinatari della comunicazione sono inesperti della materia, ma il significato della comunicazione è interpretabile correttamente solo da chi invece è già esperto; solo in una comunicazione tutta interna al mondo dei paleontologi, antropologhi evoluzionisti quel “passaggio” da Neanderthal a sapiens potrebbe essere colto come metafora di un idea completamente diversa, molto più complessa e scientificamente corretta, dell’evoluzione umana. Non approfondisco qui cosa si intende per “scientificamente corretta”, ma ha a che fare con la comunità scientifica di riferimento e i suoi spazi istituzionali di comunicazione.

In altre parole il divulgatore de La Repubblica effettivamente comunica qualcosa di molto diverso, anzi opposto dal punto di vista epistemologico e storico, da ciò che intende comunicare, ammesso (per benevolenza) che intenda comunicare la corretta idea scientifica in questione. Ma il problema vero è quando il divulgatore ha una formazione scientifica o addirittura è uno scienziato esperto nel campo in cui si colloca l’oggetto della comunicazione, perché in questo caso è da escludere l’ignoranza e la pretesa di poter comunicare a inesperti ciò di cui non si è almeno moderatamente esperti.

Qual è la forza irresistibile che spinge uno scienziato a comunicare ciò che ha un significato diverso da ciò che intende (nel suo caso siamo sicuri) comunicare? Il caso più generalizzato è l’uso del linguaggio finalistico da parte di evoluzionisti, cioè di persone che costruiscono la loro competenza professionale a partire dalla rivoluzione culturale darwiniana (che consiste nella sostituzione di una epistemologia finalistica con una naturalistica) e che si impegnano a farla conoscere. Addirittura a volte usano, in contesti come libri o manuali universitari, un linguaggio “animistico”, ovvero espressione di quel pensiero che attribuisce la causa di un fenomeno all’azione di un soggetto antropomorfizzato, e che Jean Piaget aveva identificato come una fase tipica dello sviluppo del “fanciullo” (esempi: “A livello fisiologico i batteri mettono in atto una serie di strategie per eludere il sistema immunitario dell’ospite che nel frattempo cerca di eliminarli”; Le cellule sono ben consapevoli di queste eventualità e per questo hanno predisposto meccanismi di riparazione del DNA nel caso in cui anche un solo filamento sia danneggiato”).

Diceva Lavoisier (1787) «… non è possibile perfezionare la scienza senza migliorarne il linguaggio: per quanto siano sicuri i fatti, per quanto siano giuste le idee nate dai fatti, essi traggono in errore se per essi non esiste una espressione precisa. Le nostre argomentazioni scientifiche spesso risultano errate a causa della improprietà del nostro linguaggio.»: sono le parole che segnano un passaggio determinante per la storia della scienza. Ma, se per la scienza idee diverse generano linguaggi diversi, per l’apprendimento della scienza è di importanza vitale il reciproco: linguaggi diversi veicolano, e quindi inducono a costruire, idee diverse. L’uso di un linguaggio finalistico, o addirittura animistico, impedisce ai non esperti, in prima battuta ai bambini, di conoscere l’evoluzione per ciò che è, per come la conosciamo noi evoluzionisti. È esattamente come dire che “l’uomo discende dalla scimmia”. Questa, in un paese dove la maggioranza dei cittadini ignora l’evoluzione come caso particolare dell’ignoranza scientifica generale, è una delle poche “verità scientifiche” che tutti hanno ben scolpite nella memoria e ripetono alla generazione successiva (altre sono “le piante si nutrono di acqua e sali minerali”, “le piante di giorno fanno fotosintesi e di notte respirano”…).

Per rispondere alla domanda “quale forza spinge anche gli scienziati…”, le prime ipotesi che mi vengono in mente sono tre, non in alternativa. La prima è la “forza dell’inerzia” che inibisce dal modificare, quando ci si rivolge a un pubblico di non esperti, il linguaggio che abitualmente ci si può permettere di usare con i propri colleghi già esperti, i quali possono identificare le metafore come tali e il significato che nascondono (e non saprei se e quanto in questo atteggiamento vi sia un residuo di esoterismo).

La seconda, ha a che fare invece con il contesto mediatico: uno scienziato chiamato in un talk-show a “spiegare al pubblico la meccanica quantistica” dopo le prime quattro parole si sentirà dire “caro professore, il nostro pubblico non può ascoltare queste cose per più di tre minuti, quindi veda di far entrare la meccanica quantistica in meno tre minuti, prima della pubblicità”. Qui è la deontologia professionale dello scienziato che può aiutarlo a scegliere qualche soluzione intermedia tra alzarsi, salutare cortesemente e andarsene, e raccontare una barzelletta sui quanti.

Ma si trovano in rete in rete le prove che biologi di professione usano un linguaggio animistico in un contesto divulgativo come un “Festival della Scienza” anche quando hanno a disposizione più di un’ora di conferenza senza vincoli posti dal presentatore. Questo rimanda alla prima ipotesi; oppure alla seconda, nel senso che lo scienziato ha forse interiorizzato l‘esigenza del conduttore televisivo di colpire l’immaginazione del pubblico più che di informarlo, in quella che si può definire la dinamica della “scooperta” scientifica (che trova il suo modello insuperabile in Kazzenger).

Una terza ipotesi rimanda ai “pregiudizi pedagogici”, non solo degli scienziati; per esempio l’idea che con i non esperti, a partire dai bambini, bisogna semplificare, come buona strategia per facilitare. Gaston Bachelard aveva individuato la facilità come un grave ostacolo al pensiero scientifico, ma soprattutto, non è la facilità quello che vogliono i bambini, ma forse quello che a noi piace pensare dei bambini (“Abbiamo scoperto che la scienza è difficile, ma se non lo fosse non ci divertiremmo” dice, con la lapidarietà di un epigrafe, Aurelia, alunna di 2a media). Insomma, se vi chiedono di spiegare la relatività generale in tre minuti, “Einstein ha detto che tutto è relativo” non solo non è una risposta scientifica, ma non è neppure una buona risposta in termini educativi.

E allora come uscire dal doppio vincolo tra una scienza solo per iniziati o una scienza che, resa facile, perde la problematicità e la dimensione del pensiero critico che sono la sua essenza e la sua funzione culturale? Quello che mi sento di dire è che dovremmo occuparci seriamente del problema, convincendoci che ad essere in gioco sono le competenze scientifiche di cittadinanza e, quindi, la democrazia; a partire da alcune idee:
che non basta sapere qualcosa per riuscire a spiegarla a chi non conosce le premesse implicate in quel qualcosa

– che “spiegare”, come dice l’etimologia, fa aumentare la superficie, ovvero la quantità di parole che occorre dire
– che semplificare non è una questione di numero di parole o di lessico, ma forse di diversa risoluzione (per usare una metafora informatica)
– che non è logicamente pensabile che qualcuno capisca, ascoltando poche parole, quello che lo scienziato ha imparato in anni di studio (milioni di parole) e ricerche
– che forse non è necessario che tutti sappiano tutto, quando è a malapena possibile sapere molto di un solo imitato argomento
– che non è buona cosa far sì che qualcuno creda di sapere ciò che non ha compreso, inducendolo a insegnare ad altri ciò che non sa
– che è buona cosa che ciascuno sappia cosa non sa (forse gli viene la voglia di informarsi e capire)