La tenacia dell’adattazionismo

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Che ne è stato dell’adattazionismo negli studi sull’evoluzione? Uno studio sistematico della letteratura scientifica recente.

Correva l’anno 1979 quando Stephen J. Gould e Richard Lewontin pubblicarono il celebre articolo I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss, nel quale criticavano l’egemonia dell’adattazionismo nel programma di ricerca in biologia evolutiva. Secondo i due illustri scienziati, la tendenza a vedere tutti i  tratti degli esseri viventi come prodotti di un’evoluzione finalizzata all’adattamento è un errore concettuale che genera domande ingannevoli (“what for did this trait evolve?”). Per di più, tale approccio, chiamato adattazionismo, lascia uno spiraglio aperto a delle interpretazioni finalistiche prive di alcun riscontro sperimentale.

Oggi, a ventitre anni di distanza, che ne è stato dell’approccio adattazionista negli studi sull’evoluzione? La lezione di Gould e Lewontin è stata assimilata? È quello che si sono chiesti Chiara Caruso, Emanuele Rigato e Alessandro Minelli, del dipartimento di biologia dell’università di Padova, che in un articolo pubblicato negli Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti hanno riportato i risultati di un loro studio sistematico della letteratura scientifica recente.

In particolare, gli studiosi padovani hanno selezionato sedici fra le migliori riviste scientifiche e analizzato tutti gli articoli presenti nei loro database nel periodo compreso fra il 2005 e il 2010; scopo della loro ricerca era individuare la frequenza con cui comparivano, nei titoli e nel testo degli articoli, dei riferimenti espliciti all’adattazionismo. Un primo screening è stato condotto cercando tre specifiche stringhe di testo, “evolved for”, “adapted for” e “adaptation for”, ed eliminando i risultati non attinenti. Sebbene la percentuale totale degli articoli contenenti un linguaggio adattazionista/finalista fosse inferiore all’1%, è interessante notare come essa fosse significativamente più alta in alcuni giornali che trattano in maniera specifica di biologia evolutiva, come il Journal of Human Evolution (7.82%), l’Annual Review of Ecology Evolution and Systematics (6.02%), Evolution (5.42%) e il Journal of Evolutionary Biology (5.29%). A distinguersi positivamente, in questo contesto, è l’American Naturalist, che ha pubblicato solo uno 0.18% di articoli adattazionisti/finalisti.

Per completare questa panoramica, gli autori dello studio sistematico si sono poi concentrati sulla presenza, nella letteratura scientifica, di richiami a quella scala naturae che, con la sua classificazione rigorosamente lineare e gerarchica delle specie animali, ha dominato la biologia pre-evolutiva. Benché superata, questa visione ha lasciato radici profonde nel linguaggio scientifico, tant’è che, come rivelano Caruso, Rigato e Minelli, il concetto di organismi “superiori” o “inferiori” è ancora abbastanza diffuso, soprattutto quando si parla di piante.

Non si tratta di mere questioni lessicali: scrivere che un tratto si è evoluto per adattarsi a un determinato ambiente significa sostenere che la funzione di questo tratto è implicita già nel processo selettivo che l’ha modellato. Sappiamo invece che spesso la funzione di un tratto è una exaptation, vale a dire una reinterpretazione funzionale di un tratto già esistente che in un determinato contesto ambientale si rivela vantaggioso. Una bella differenza, insomma. Allo stesso modo, continuare a parlare di organismi superiori e inferiori implica una mancanza di quella prospettiva storica e genealogica che da tempo è riconosciuta come il cuore del processo evolutivo.

Lo studio padovano mette quindi in evidenza come certi concetti permangano tutt’ora nel lessico scientifico-specialistico, benché i tanti progressi della ricerca sull’evoluzione li abbiano resi oramai superati. È dunque importante interrogarsi su queste non irrilevanti resistenze mentre gli studi evolutivi si avviano lungo percorsi nuovi e più pluralisti.

Immagine: Zairon, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons