Lab girl: come si sono evolute le piante, come evolve la scienza

Pikaia ha letto per voi la biografia della geobiologa Hope Jahren, tra passione per le piante e amore per la scienza

“Tutti amano l’oceano. La gente mi chiede come mai non studio l’oceano visto che vivo alle Hawaii. La ragione, rispondo io, è che l’oceano è un luogo vuoto e solitario”. Inizia così la stupefacente biografia della geobiologa Hope Jahren dal titolo Lab Girl. La mia vita tra i segreti delle piante di recente pubblicazione da parte di Codice Edizioni.

Hope Jahren, scienziata titolare della cattedra di Geobiologia all’Università delle Hawaii, è nata in una freddissima cittadina del Minnesota da una famiglia di origine norvegese e ha dedicato la propria vita professionale allo studio delle piante e ai loro segreti. Lab Girl non è però una classica biografia, quanto piuttosto l’occasione per l’Autrice di raccontare le piante e la scienza partendo dal proprio vissuto. Il testo che ne risulta è una biografia ricca di spunti e di elementi su cui ragionare per provare a guardare con occhi diversi le piante… anzi è un invito prima di tutto a guardarle nel senso letterale del termine.

“C’è molta più vita sulla terra <scrive Hope Jahren>, seicento volte tanto, rispetto a quella che si sviluppa in mare e questo se ci limitiamo agli organismi vegetali. (…) Assecondatemi quindi per un momento e guardate fuori dalla finestra. Che cosa avete visto? (…) Le piante non sono come noi. Sono diverse per molti aspetti cruciali e decisivi. Mentre catalogo le differenze tra piante e animali, l’orizzonte si apre davanti a me a una velocità superiore rispetto a quella che posso sostenere e mi costringe a prendere atto che forse il mio destino era studiare le piante per decenni solo per capire meglio la loro natura di organismi che non è mai possibile comprendere sino in fondo. È solo quando cominciamo a percepire questa profonda alterità che possiamo essere sicuri di non proiettare più noi stessi sulle piante e finalmente iniziamo a capire che cosa accade davvero”.

Le piante spesso sono ridotte a sfondo della nostra vita quotidiana, ma così facendo ci perdiamo quanto di meraviglioso ciascuna pianta è in grado di fare. Per molti aspetti, la biografia della Jahren mi ha ricordato Le piante sono brutte bestie (Codice Edizioni), il bellissimo libro in cui Renato Bruni, professore associato in Botanica e Biologia farmaceutica dell’Università di Parma, scriveva che “le piante sono brutte bestie, non le capisci se non le osservi da vicino, chinandoti, abbassando il capo e guardando verso terra” (su Pikaia ne avevamo parlato qui).

Assecondate quindi Hope Jahren, scegliete una pianta, mettetela in un vaso, nel vostro giardino o sul vostro balcone o anche solo sulla vostra scrivania e così facendo… “la potrete misurare ogni mese e tracciare su un grafico la sua curva di crescita. Ogni giorno potrete guardare l’albero, osservare ciò che fa e cercare di vedere il mondo dal suo punto di vista. (…) Scattate una foto, contate le foglie, azzardate ipotesi. Esprimetele ad alta voce. Annotatele. (…) Quando i vostri interlocutori cominceranno ad alzare gli occhi al cielo e a dirvi cortesemente che siete matti, potrete ridere con soddisfazione. Quando siamo scienziati, significa che facciamo la cosa giusta”. Le piante possono essere infatti un modo immediato per avvicinarsi alla scienza e per ricordare che la scienza non nasce dall’applicazione di complesse tecniche in un laboratorio, ma dal porsi le domande giuste nel modo corretto, perché “la cosa più importante, quella che viene prima di tutto il resto, è una domanda. E voi ve la siete già posta. (..) E allora, visto che siamo tra scienziati, lasciate che vi racconti qualcosa”.

In realtà, gli argomenti che la Jahren affronta sono decisamente tanti (come lei stessa anticipa nella sua bella presentazione disponibile su Youtube) e spaziano dall’evoluzione delle piante ai loro adattamenti agli ambienti terrestri, dalle strategie riproduttive alla struttura di tronchi e foglie, senza mai ricorrere a termini eccessivamente tecnici. Nel libro si parla di memoria epigenetica (ben esemplificata da alcuni studi sull’abete rosso) e di finanziamento alla ricerca (in particolare alla ricerca di base o se preferite alla ricerca non applicata ma guidata dalla curiosità) o sarebbe più corretto dire di sotto-finanziamento alla ricerca di base e a quella ambientale perché “gli USA possono anche affermare di tenere la scienza in grande considerazione, ma di sicuro non la vogliono finanziare”.

La parte che però ho apprezzato maggiormente non è dedicata all’evoluzione delle piante, ma al modo in cui procede la ricerca scientifica e alla strada che porta alla formazione di uno scienziato. “Per affermarsi come scienziati <scrive Hope Jahren> ci vuole una eternità. (…) Un vero scienziato non conduce esperimenti prestabiliti, ma ne elabora di propri e così facendo genera conoscenze totalmente nuove. Questa transizione che ti porta dal fare ciò che ti è stato detto al voler stabilire in prima persona che cosa fare si produce in genere nel bel mezzo di una tesi. Per molti versi, è la cosa più difficile e terrificante che uno studente possa fare, e il fatto di non riuscirci o di non volerla fare è quello che in genere allontana le persone dalle scuole di dottorato”.

Fare lo scienziato vuole dire investire tempo ed energie in una idea, spesso (molto spesso!) lavorando con pochi e scarsi finanziamenti, per capire come funziona una data molecola, come un organismo vivente riesce a rispondere ad un dato stimolo. Per molti ricercatori questo può avvenire in campo così come in laboratorio… luogo che molti scienziati scambiano spesso per la propria casa (cosa per cui io stesso vengo bacchettato dai colleghi dell’ufficio prevenzione): “il mio laboratorio non ha finestre, ma non sono necessarie. Basta a sé stesso. E’ un mondo in sé. Il mio laboratorio è tanto privato quanto familiare, popolato da poche persone che si conoscono bene tra loro. Il mi laboratorio è il luogo in cui la mia mente opera attraverso le mani, in cui faccio cose. (…) Il mio laboratorio è un luogo in cui al senso di colpa per quello che non faccio si sostituiscono tutte le cose che invece faccio. I genitori che non sento al telefono, i conti in sospeso delle carte di credito, i piatti da lavare impallidiscono di fronte al nobile, importante passo in avanti per il quale lavoro. (…) Il laboratorio è diventato il posto dove posso essere veramente me stessa. Il mio laboratorio è come una chiesa perché è il luogo dove scopro ciò in cui credo”.

Il laboratorio è anche una occasione di confronto con gli studenti e in cui ciascun scienziato decide che tipo di docente vuole essere e in cui Hope Jahren e il suo storico e irascibile collaboratore Bill Hagopian decidono che avrebbero “insegnato la chimica del suolo in un modo diverso da come l’avevano insegnata a noi”.

Il laboratorio è infine il luogo in cui lo scienziato mette a punto una ulteriore dote immancabile: la pazienza! In questo aspetto è molto calzante il paragone con le piante: solo il cinque per cento dei semi che cade a terra riuscirà poi a crescere, e di questi ultimi, solo il cinque per cento arriverà al primo anno di vita. I semi sanno aspettare. Nella maggior parte dei casi, un seme aspetta almeno un anno prima di cominciare a crescere; in alcuni casi, per esempio l’albero di ciliegio, si può arrivare addirittura a cent’anni. La “pazienza” delle piante è ciò che serve ad ogni scienziato perché ogni idea in origine era un seme che pian piano è divenuto un albero rigoglioso e… anche le possibilità di carriera sono molto simili!

Pur non concordando con il commento del The New York Times secondo cui Lab Girl farà per la botanica quello che i libri di Oliver Sacks hanno fatto per la neurologia e quelli di Stephen Jay Gould per la teoria dell’evoluzione, indubbiamente Lab Girl farà crescere in voi il seme della curiosità verso le piante e forse ne trarrete anche il suggerimento di essere più attenti e rispettosi dei viventi che ci circondano… e il geranio che avete abbandonato sul balcone ve ne sarà per sempre grato.