Non mangiate i pescispada. Ma neppure le sardine…

Una ricerca mette in guardia da una politica che fino a qualche tempo fa sembrava vincente; cioè quella di pescare a bassi livelli trofici in mare

Allora, che facciamo, diventiamo tutti erbivori? Al di là dell’ironia, è il primo pensiero che viene leggendo un articolo su Science Express, dal titolo Impact of fishing low-trophic level species on marine ecosystem. L’articolo mette in guardia da una politica che fino a qualche tempo fa sembrava vincente; cioè quella di pescare a bassi livelli trofici in mare. Questo perché come mi ha detto un esperto della politica della pesca «Sulla terraferma mangiamo mucche e maiali, nel mare lupi e orsi». Un frammento di introduzione: le specie che prediligiamo e che facciamo di tutto per mettere sulla nostra tavola, anche per abitudini alimentari non so quanto totalmente culturali, sono infatti tonni, pesci spada, cernie, e altri carnivori. Anche nel caso degli allevamenti spigole, orate, anguille e trote (per non parlare dei salmoni) sono tutti carnivori. I primi e i secondi hanno bisogno di mangiare altra carne di pesce per sopravvivere, con conseguente perdita di efficienza e spreco energetico immenso. Poiché le popolazioni umane però si stanno, grazie allo sviluppo, spostando da una dieta prevalentemente erbivora a una carnivora, dobbiamo fornir loro in qualche modo della carne da mettere sul piatto.

Chi sono per non avere gli stessi privilegi degli occidentali? La politica della pesca però, poiché è totalmente legata alla politica del consenso (non si possono eliminare gli incentivi per la pesca, pena la perdita di migliaia di posti di lavoro – e di voti) non ha la forza o il coraggio di spingere per la cattura di erbivori e non di carnivori. Ci pensano quindi gli ecologi (gli esperti di pesca sono quasi sempre inascoltati, se non al servizio dei politici – bastava vedere la faccenda delle quote del tonno rosso) a dire che la logica detterebbe un altro tipo di approccio. Cerchiamo di pescare a livello ecologico più basso: cioè verso quelli che i vecchi libri di ecologia chiamavano consumatori primari, i più vicini alla fonte di energia (il sole) e quindi quelli che meno di altri producono spreco energetico ed ecologico. Questo dal punto di vista puramente energetico sembrava tornare: ma l’ecologia è una brutta bestia e se tocchi un piccolo particolare da una parte ne dovrai subire le conseguenze da altre parti, magari totalmente inaspettate – è la legge delle conseguenze inattese. Una dimostrazione è quello che ho postato qualche tempo fa, nel post in cui si parlava delle conseguenze di distruggere i predatori – qua. Allora, diciamo che tutti ci consigliano di mangiare l’aringa, l’acciuga e il maccarello (e lo spinarello, il pesce ragno e il suo compagno, e persino l’anguilla che s’avvolge ad armilla – cit.). Non che non le peschiamo, attenzione, ma la maggioranza la usiamo per la produzione di pesci d’acquacoltura e per il bestiame ‘terrestre’, piuttosto che essere consumati direttamente. Ammettiamo che a un certo punto obbediamo alle indicazioni dall’alto, e ci mettiamo a mangiare direttamente le aringhe.

Purtroppo lo studio che citavo prima dice che anche in questo caso le conseguenze non sono indolori. Questo perché queste specie (che spesso di presentano in aggregazioni di milioni e milioni di individui, come nel caso del sardine run in Sud Africa, cui si riferisce la stupenda foto sopra, col pesce vela che insidia le sardine) sono il collegamento diretto tra i produttori primari (fitoplancton) e i consumatori primari, appunto i pesci carnivori, i mammiferi marini o gli uccelli come le sule o i pellicani. Anche perché in alcuni casi ci sono sistemi “a vitino di vespa” in cui una gran parte della produzione di plancton è trasportata a livelli trofici superiori da poche specie di pesci: diminuiti quelli, si interrompe anche la rete alimentare. Le zone studiate sono state cinque in tutto il mondo (praticamente una per ogni continente) e il livello di sfruttamento è stato simulato in alcuni modelli ecologici. I risultati sono stati variabili, ovviamente. Gli impatti vanno dai nulli a negativi; oltre naturalmente a impattare le specie stesse, altri colpiti sono i mammiferi e gli uccelli marini. Secondo l’ambiente, le specie importati potevano cambiare: pescare acciughe aveva un impatto elevato e pescare sardine uno basso nell’ecosistema del nord della Corrente di Humboldt, mentre nell’ecosistema del sud della corrente di Benguela era la pesca della sardine ad avere un impatto maggiore. Una delle variabili più importante era la connettanza (cioè la proporzione dei possibili legame tra le specie e quelli che si realizzano). La frase che spiega molte cose, non solo di questo articolo, è questa: c’è tensione tra il raggiungere l’obiettivo di proteggere e mantenere la biodiversità, e la sicurezza mondiale in fatto di cibo.

E in conclusione gli autori dicono che se proprio dobbiamo pescare, forse sarebbe meglio farlo diversificando le prede e soprattutto mangiandosi direttamente le sardine, senza darle a spigole od orate.

Riferimenti:
Smith, A., Brown, C., Bulman, C., Fulton, E., Johnson, P., Kaplan, I., Lozano-Montes, H., Mackinson, S., Marzloff, M., Shannon, L., Shin, Y., & Tam, J. (2011). Impacts of Fishing Low-Trophic Level Species on Marine Ecosystems Science DOI: 10.1126/science.1209395

Tratto da Leucophaea, il blog di Marco Ferrari