Prospettive sull’evoluzione del linguaggio.

Recensione del libro Language Evolution. Sebbene i risultati raggiunti dalla scienza, soprattutto nel secolo scorso, abbiano portato notevoli progressi alla nostra comprensione dell’universo in cui viviamo e siano state proposte un’ampia serie d’ipotesi sulle sue origini, siamo molto lontani dal capire quale sia il nostro posto in esso e quali siano le caratteristiche che ci distinguono come esseri umani dalle

Recensione del libro Language Evolution. Sebbene i risultati raggiunti dalla scienza, soprattutto nel secolo scorso, abbiano portato notevoli progressi alla nostra comprensione dell’universo in cui viviamo e siano state proposte un’ampia serie d’ipotesi sulle sue origini, siamo molto lontani dal capire quale sia il nostro posto in esso e quali siano le caratteristiche che ci distinguono come esseri umani dalle altre specie che con noi convivono. Quali siano le caratteristiche che ci rendono umani è forse la domanda più difficile che dobbiamo affrontare da sempre. Ciò che sicuramente ci caratterizza e ci distingue dagli altri esseri viventi è il nostro linguaggio: noi siamo l’unica specie al mondo ad avere un’incredibile capacità di mettere insieme i pensieri in parole e, attraverso queste, influenzare reciprocamente i nostri comportamenti. La comprensione di noi stessi, come specie, passa sicuramente dalla comprensione di questa capacità unica. Per comprendere il linguaggio articolato abbiamo bisogno di capire perché questo sia nel modo in cui è, da dove venga, come si sia evoluto e perché noi siamo, per quanto ne sappiamo, l’unica specie a possederlo. Anche qui, sebbene siano stati fatti grandi passi avanti nella comprensione del funzionamento della nostra capacità linguistica, conosciamo veramente poco riguardo alle origini di questo tratto così complesso. Le ragioni di questo sono in parte da ricercare nel fatto che lo studio delle origini del linguaggio abbraccia un’ampia gamma di discipline diverse e la sua comprensione necessita, quindi, di un complesso lavoro collettivo di specialisti provenienti da diversi campi di studio. Inoltre, anche se l’esistenza del linguaggio, la sua origine, le differenze rispetto ai codici comunicativi animali, le ragioni delle differenze tra le lingue sono oggetto d’indagine e di riflessione, per quel che ne sappiamo, almeno dai testi greci classici, l’interesse per le origini del linguaggio ha vissuto nel tempo alterne fortune. Nel secolo scorso, quando Charles Darwin pubblicò il suo “L’Origine delle specie”, il numero di teorie e congetture sul tema aumentarono a dismisura, aprendo però la strada anche a un gran numero di ipotesi puramente speculative. Qualche anno dopo, quindi, nel 1866, l’autorevole Societè linguistique de Paris si vide costretta ad approvare una delibera per mettere all’indice gli articoli riguardanti questo tema; l’avvertenza recitava che non sarebbero state accettate comunicazioni a riguardo, trattandosi solo di speculazioni oziose. Lentamente, durante Novecento, il tema delle origini del linguaggio ha riguadagnato terreno fino a che, nell’ultimo decennio, è tornato ad essere al centro dei principali modelli teorici nelle scienze linguistiche e in filosofia della mente. Indubbiamente le caratteristiche dell’oggetto d’indagine si prestano a una facile speculazione rispetto ai riscontri empirici e alle evidenze, che sono invece di difficile reperimento. Un accumulo di dati, però, provenienti negli anni da discipline diverse quali la biologia, la paleontologia, le neuroscienze, l’antropologia, l’archeologia, l’etologia e la genetica hanno ribaltato i termini della questione: da campo d’indagine considerato irrilevante è diventato tema attorno al quale conciliare speculativamente le prospettive offerte dalle varie discipline. Un testo fondamentale per un’introduzione al tema dell’evoluzione del linguaggio, che coinvolge grandi nomi del panorama scientifico e che parte proprio da una prospettiva multidisciplinare, è il progetto collettivo curato da Morten Christiansen, docente di psicologia all’Università di Cornell e da Simon Kirby, ricercatore associato al Language Evolution and Computation Research Unit di Edimburgo: CHRISTIANSEN, M. e KIRBY, S. 2003, (a cura di) “Language Evolution”, Oxford University Press, Oxford. Si tratta di una lettura essenziale per chi sia interessato a questo campo di ricerca, che raccoglie, in forma di brevi saggi, le prospettive aggiornate dei più importanti scienziati, provenienti da diverse discipline, che provano a far luce sul mistero dell’evoluzione del linguaggio. Tra gli altri troviamo Steven Pinker, Derek Bickerton, Michael Corballis, Terrence Deacon, Tecumseh Fitch, Marc Hauser, Phil Lieberman e Martin Nowak. Vediamo, ora, una breve panoramica dei diversi modi e punti di vista con cui tali autori si avvicinano a questo tema complesso: ad iniziare è Steven Pinker, che nel primo capitolo riprende la sua teoria, già proposta con Paul Bloom all’inizio degli anni novanta, aggiornandola con i dati empirici delle ricerche più recenti. (Si veda PINKER, S., BLOOM, P., 1990, “Natural language and natural selection” Behavioral and Brain Sciences, 13(4):707—784; da consultare anche per vedere come si è evoluta la prospettiva da allora ad oggi) L’ipotesi sostenuta dallo psicologo di Harvard è che la capacità linguistica umana sia un complesso adattamento biologico modellato dalla selezione naturale. Nella sua prospettiva il linguaggio si sarebbe evoluto come specializzazione innata capace di codificare informazione e avrebbe favorito la vita sociale nel nostro ambiente fisico e cognitivo. Come ulteriore supporto alla sua idea, Pinker cita anche le recenti scoperte della genetica, alle quali l’autore è sempre molto attento (si veda in proposito PINKER, S., 2001, “Talk of genetics and vice versa” Nature, 413:465—467) e la teoria dei giochi applicata all’evoluzione. Nel capitolo seguente, il ricercatore in linguistica applicata all’Università di Edimburgo James Hurford, ipotizza, invece, che il linguaggio si sia evoluto da una combinazione di pre-adattamenti biologici (modificazioni biologiche non necessariamente adattative) e modellato e adattato nel tempo dal filtro dell’apprendimento linguistico dei bambini. Frederick Newmeyer, storico della linguistica, si concentra sul fatto che sorprendentemente il tema dell’evoluzione del linguaggio abbia faticato a trovare spazio nelle agende dei colleghi linguisti. E le ragioni di ciò, sostiene, sono da ricercare soprattutto in uno dei dogmi incontrastati della linguistica moderna, che dice che i linguaggi, da un punto di vista profondo e importante, sarebbero tutti uguali. Non esisterebbero, quindi, linguaggi “primitivi”, ma sarebbero tutti, dalla lingua della tribù nomade di cacciatori a quello parlato nelle società industrializzate, ugualmente complessi. Questa scoperta fondamentale si riferisce, però, alla situazione attuale del tempo presente; considerando, invece, il tempo dell’evoluzione, sembra plausibile, secondo Newmeyer, l’ipotesi che siano esistiti diversi usi del linguaggio . Per esempio, come sostengono alcuni, potrebbe essere nato per ragioni cognitive d’organizzazione concettuale piuttosto che per la comunicazione (si veda tra gli altri CHOMSKY, 1991, “Linguaggio e problemi della conoscenza”, Il Mulino, Bologna, (ed. originale 1988)). Per Newmeyer occorre, quindi, un approccio meno rigido, che consideri il linguaggio e i suoi possibili cambiamenti alla luce del tempo evolutivo. Anche Dereck Bickerton, professore emerito di linguistica all’università delle Hawaii, evidenzia il fatto che pochi linguisti siano coinvolti nello studio dell’evoluzione del linguaggio, mentre, l’apporto delle prospettiva linguistica sarebbe fondamentale nell’avvicinarsi alla comprensione di questo tema. L’autore suggerisce, inoltre, che dal punto di vista evolutivo sia importante considerare il linguaggio non come un fenomeno unitario ma come l’unione di tre elementi indipendenti: la capacità di rappresentazione simbolica, che si sarebbe, ad un certo punto della nostra storia evolutiva, combinata con un adattamento biologico di circuiti neurali capaci di codificare strutture sintattiche; altri fattori, del tutto contingenti, avrebbero in seguito favorito la modalità orale per l’espressione di questa nuova forma di comunicazione. Michael Tomasello, direttore dell’istituto Max Planck di Lipsia, nel successivo capitolo, enfatizza il contributo che la psicologia può dare a questo ambito di ricerca. L’autore sostiene che il linguaggio non sia nato da un adattamento biologico specifico per la comunicazione linguistica, ma che il fattore cruciale sarebbe stato un adattamento per una più ampia capacità di cognizione sociale, che avrebbe poi permesso la cultura umana e, come sottoinsieme di questa, la comunicazione simbolica. Una parte cruciale di questo adattamento sarebbe stata la capacità di riconoscere l’altro come dotato di intenzioni e la volontà, quindi, di influenzarne il comportamento. La grammatica si sarebbe formata, poi, attraverso i processi culturali di apprendimento nel passaggio tra generazioni. Anche Terrence Deacon, docente di antropologia e linguistica all’Università di Berkeley, che si è occupato del settimo capitolo, sostiene che la capacità di comunicazione simbolica sia stata cruciale nell’evoluzione del linguaggio. Ma, al contrario di Tomasello, non affida la spiegazione dei pattern universali dei diversi linguaggi a soli fattori culturali; nemmeno, però, si colloca dall’altro lato, con Noam Chomsky, Steven Pinker e altri, appoggiando l’idea innatista ma propone, invece, che i vincoli che conducono alla costituzione degli universali linguistici siano parte del sistema simbolico stesso. L’ipotesi di Deacon è che, a causa della relazione complessa tra i simboli e ciò che questi denotano, emergano dei vincoli “semiotici” che poi guiderebbero la costruzione di frasi e discorsi. Questi vincoli governerebbero, non solo il sistema simbolico del linguaggio umano, ma qualunque sistema simbolico possibile. Il saggio seguente è curato da Ian Davidson, docente di paleantropologia e archeologia all’Università del New England, che pure sostiene l’importanza e la priorità della comunicazione simbolica proponendo, però, il punto di vista dell’archeologia. L’autore concentra l’attenzione su come gli artefatti indirettamente, più che i resti anatomici, possano svelarci il comportamento e le capacità di chi li ha prodotti e usati. Marc Hauser e Tecumseh Fitch, entrambi docenti di Psicologia, il primo all’Università di Harvard e il secondo all’Università di St. Andrews, si concentrano, invece, sulla metodologia, indicando, come strumento fondamentale il metodo comparativo. E’, infatti, attraverso il confronto del nostro linguaggio con le forme di comunicazione animale e in particolare quelle dei primati, che possiamo capire le caratteristiche uniche del nostro linguaggio. Anche Michael Arbib, neuroscienziato evolutivo, segue la strada del confronto con le altre specie, focalizzando l’attenzione sull’anatomia del cervello: sarebbe l’evoluzione di questo, attraverso diversi pre-adattamenti biologici, che avrebbe portato l’essere umano a sviluppare il suo particolare tipo di linguaggio. In particolare l’autore si concentra sul sistema, cosiddetto “mirror”, a lungo studiato nei primati non umani, che permette la coordinazione di percezione-azione con l’altro. Questo sarebbe un analogo dell’area di Broca del cervello umano, che si è scoperto avere un ruolo cruciale per la nostra facoltà linguistica. Tale legame rivelerebbe, quindi, che originariamente il linguaggio sarebbe stato una forma di comunicazione di gesti coordinati e, solo dopo, si sarebbe evoluto nella forma parlata. La tesi dell’originaria gestualità del linguaggio è sostenuta anche da Michael Corballis, docente di psicologia all’Università di Auckland, che individua nel bipedismo il passo cruciale compiuto dai nostri antenati, in quanto avrebbe liberato loro le mani permettendo una comunicazione gestuale ricca e continua, che si sarebbe poi evoluta nella modalità vocale. Nell’articolo seguente Robin Dunbar, docente di Psicologia evoluzionistica all’Università di Liverpool, muove invece da un approccio critico verso l’ipotesi dell’origine gestuale, proponendo che il linguaggio si sia sviluppato dalla vocalizzazione e sarebbe stato selezionato positivamente perché avrebbe favorito l’aggregazione e l’organizzazione sociale. Inoltre la straordinaria proprietà di diversificazione del linguaggio nei vari dialetti avrebbe permesso e permetterebbe l’identificazione con il gruppo d’appartenenza. Anche Michael Studdert-Kennedy e Louis Goldstein, ricercatori all’Haskins Laboratory dell’Università di Yale, individuano l’origine del linguaggio nella vocalizzazione, ma il salto cruciale, per i due autori, sarebbe avvenuto con l’acquisizione della capacità di creare sequenze ricorsive infinite da elementi discreti. Come Corballis anche il linguista Philip Lieberman, nell’articolo che segue, individua nell’avvento del bipedismo il fattore fondamentale per l’evoluzione del linguaggio umano. Questo avrebbe, infatti, provocato una riorganizzazione neurale dei gangli basali del cervello, con effetti profondi sulla capacità di apprendimento. Simon Kirby e Morten Christiansen pongono, dal canto loro, l’accento sull’importanza della simulazione computazionale come strumento per la comprensione del tema dell’evoluzione linguistica. Questo metodo avrebbe evidenziato come specifici vincoli di apprendimento siano in grado di spiegare universali linguistici senza bisogno di ipotizzare adattamenti biologici innati. Inoltre, secondo i due curatori del libro, l’evoluzione del linguaggio deve essere compresa alla luce di tre scale temporali: la scala individuale (l’apprendimento nello sviluppo ontogenetico), la scala culturale (l’apprendimento tra le generazioni) e la scala biologica (attraverso il filtro della selezione naturale). Ted Briscoe, docente di linguistica computazionale all’Università di Cambridge, al contrario, sostiene la necessità di ipotizzare specifici vincoli biologici innati. Questi, però, potrebbero essere stati assimilati “geneticamente” da aspetti del linguaggio, inizialmente acquisiti attraverso apprendimento culturale. L’ultimo capitolo è affidato a Martin Nowack, docente di Matematica e Biologia all’Università di Harvard e alla sua allieva Natalia Komarova, che propongono la prospettiva della teoria matematica dei giochi. I due autori combinano l’approccio formale con la teoria evoluzionistica dei giochi. L’idea è che si possano studiare popolazioni di agenti intenzionali, la cui sopravvivenza e possibilità di procreare dipendono in modo cruciale dalla capacità di acquisire il linguaggio. Dunque, il campo di ricerca delle origini e l’evoluzione di quella particolare e complessa forma di comunicazione, che è il nostro linguaggio, è un campo ricco e vitale, dove confluiscono una serie di discipline e prospettive diverse. Il pregio più grande di “Language evolution”, a mio avviso, è proprio quello di riunire tutti questi punti di vista dando una visione generale dello stato della ricerca nel settore oggi. Ricerca che si presenta come una delle maggiori sfide per la scienza del ventunesimo secolo, oltre che condizione necessaria per aiutarci a comprendere la nostra unicità in quanto esseri umani. Jacopo Romoli Approfondimenti Un articolo introduttivo interessante degli stessi Morten Christiansen e Simon Kirby è: CHRISTIANSEN, M. e KIRBY, S. 2003, Language evolution, consensus and controversies, Trends in Cognitive Sciences Vol.7 No.7 July 2003