Razze e razzismo. Tra biologia e cultura

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A 80 anni dalle leggi razziali nel dibattito pubblico si parla ancora di razze umane: c’è chi ne giustifica l’utilizzo perché il termine è presente nella carta costituzionale. Un gruppo di studiosi discute se sia opportuno eliminare la parola “razza” dall’Articolo 3 della Costituzione. Oggi infatti la comunità scientifica concorda nel ritenere che il concetto di “razza umana” sia biologicamente infondato. Ma forse il problema vero, su cui tanto la scienza quanto la politica devono interrogarsi, non è il fondamento biologico del concetto di razza, bensì il fondamento biologico del razzismo

Il 5 agosto 1938 usciva il Manifesto della razza, firmato da un gruppo di studiosi fascisti sotto l’egida del ministro della cultura popolare, in cui veniva stabilito che le razze umane esistono, compresa la “pura razza italiana”, che gli ebrei non appartengono alla “razza italiana”, e che la razza è un concetto puramente biologico. Oggi, a 80 anni dalle leggi razziali in Italia, ancora ci troviamo a discutere di razze umane nel dibattito politico[1].

Il candidato del Centrodestra alle elezioni regionali in Lombardia, Attilio Fontana, ha dichiarato ai microfoni di Radio Padania che l’invasione dei migranti mette a rischio “la nostra etnia, la nostra razza bianca”, che dunque va difesa. All’indomani delle sue uscite, per correggere il tiro, Fontana ha dichiarato “inopportune” le sue parole, ma ha aggiunto (a Tgcom24) che “dovrebbe anche cambiare la Costituzione perché è la prima a dire che esistono le razze”. A fargli eco è arrivato poi Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, che ospite del programma Di Martedì di Giovanni Floris, ha detto che “l’esistenza della razza è certificata all’articolo 3 della nostra costituzione. (…) Certo che esiste la razza bianca, così come esiste la razza nera, ma questo lo sostengono gli antropologi. (…) Se diciamo che pronunciare la parola razza è razzismo aboliamo la Costituzione”[2].

L’articolo 3 della carta costituzionale recita che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Il ragionamento di Sallusti è sbagliato su tutta la linea. Fare appello alla Costituzione per giustificare almeno in parte l’utilizzo del termine razza è un’argomentazione che non può reggere: nel momento in cui Fontana dice che la razza bianca va difesa, sta apertamente andando contro la Costituzione, che stabilisce che non debba esserci alcuna disparità di trattamento tra cittadini.

Quando poi Sallusti afferma che gli antropologi oggi sostengono che le razze umane esistono, sta semplicemente diffondendo una fake news. Il 18 gennaio scorso l’Associazione Genetica Italiana (AGI), presieduta dal Prof. Antonio Torroni dell’università di Pavia, ha pubblicato una dichiarazione[3] in merito al concetto di razza umana ribadendo che il motivo principale per “escludere che nell’uomo esistano razze biologiche è genetico”. Il comunicato fa riferimento proprio alle esternazioni di Fontana, ma si legge anche che “simili opinioni aveva espresso, nel luglio 2017, Patrizia Prestipino, della Direzione del Partito Democratico, invocando misure in difesa della razza italiana”. L’impreparazione della classe politica e dirigente su questi temi sembra dunque trasversale. Un altro documento[4] pubblicato il 23 gennaio a nome degli antropologi italiani ribadisce la ricchezza della diversità biologica e culturale degli esseri umani e l’infondatezza di qualsiasi gerarchia sociale basata su supposte ineguaglianze cognitive o comportamentali tra gruppi umani.

A onor del vero va detto che Sallusti avrebbe ragione se vivessimo a cavallo tra ‘700 e ‘800. L’ideologia razzista ha sempre preteso di trovare il suo fondamento in un concetto biologico di razza.

Nel XVIII secolo Linneo nel suo Systema naturae (decima edizione, 1758) scrive che la specie Homo sapiens è costituita da diversi sottogruppi, o razze: europeus, asiaticus, americanus, afer (africani), monstruosus e ferus (uomini selvaggi). George-Louis Leclerc conte di Buffon, uno dei progenitori del pensiero evoluzionista, nella sua Historie Naturelle, (seconda edizione del 1749 e dedicato all’Historie de l’homme) attribuisce all’influenza dell’ambiente le ragioni di questa diversità morfologica e culturale; inoltre, distribuisce su una scala gerarchica le caratteristiche morfologiche, intellettive e culturali, collocando in alto i bianchi e in basso i neri. Intorno alla fine del ‘700 la gerarchia tra razze diventa una teoria ritenuta scientifica, grazie agli studi frenologici e morfometrici di Franz Joseph Gall e Johann Friedrich Blumenbach e nel 1852 Joseph Arthur de Gobineau pubblica il saggio sulla disuguaglianza delle razze umane.

Nel 1859 Charles Darwin pubblica L’origine delle specie. L’opera darwiniana non è solo una delle più importanti rivoluzioni scientifiche della storia, è anche una rivoluzione culturale. Darwin dimostra che le specie viventi non sono essenze fisse e immutabili, ma popolazioni di individui che variano nel tempo e che trasmettono alcune di queste variazioni alla loro discendenza. Non ci sono specie migliori o peggiori di altre, ciascuna tende ad adattarsi a un ambiente anch’esso mutevole. Nel 1871, nell’Origine dell’uomo, Darwin fa riferimento alle “cosiddette razze” umane, sostenendo che l’uomo forma una sola e unica specie; e queste stesse convinzioni risiedevano alla base della battaglia morale che Darwin combatté per l’abolizione della schiavitù[5].

Le classificazioni fatte nei secoli precedenti erano basate sull’osservazione di dati morfologici, come il colore della pelle. Delle centinaia di catalogazioni proposte, non ve n’erano due che concordassero: un brutto segno per il rigore scientifico di questi studi.

Nel 1953 viene scoperta la molecola di DNA e nella seconda metà del ‘900 i metodi della genetica di popolazioni vengono applicati alle popolazioni umane. Un italiano all’università di Stanford è stato tra i pionieri di questi approcci: Luigi Luca Cavalli Sforza, autore di lavori come Geni, popoli e lingue e Geografia dei geni umani. La comunità scientifica di genetisti e antropologi oggi concorda in modo pressoché unanime nell’asserire che il concetto di razza umana sia del tutto infondato, il dato genetico parla chiaro: ognuno di noi condivide il 99,9% del patrimonio genetico con qualsiasi individuo umano. Questo perché negli ultimi 200.000 anni le popolazioni di Homo sapiens partendo dall’Africa si sono spostate in nuovi ambienti e si sono accoppiate tra loro, rimescolando ogni volta il corredo genetico. Le differenze che osserviamo oggi, colore della pelle, dei capelli e degli occhi, capacità o incapacità di digerire il lattosio, vanno ricercate in quel misero 0,01%. Non poi così misero se si considera che il genoma umano è composto da più di 3 miliardi di coppie di basi azotate (parliamo quindi di più di 3 milioni di potenziali differenze). Inoltre, quello 0,01% di differenze è distribuito in modo tale che ciascuna popolazione umana ospita in media l’88% della variabilità dell’intera specie. E se prendiamo due persone qualsiasi, provenienti da due qualsiasi aree geografiche della Terra, troviamo che le differenze genetiche tra di loro sono troppo poche per poter stabilire l’esistenza di raggruppamenti genetici tali da identificare razze umane diverse.

Destituire di fondamento scientifico il concetto di razza umana tuttavia non è sufficiente per eliminare il razzismo, un fenomeno che persiste, sul piano culturale. E qui la scienza potrebbe di nuovo tornarci utile. Appurato che non è il concetto di razza umana ad avere un fondamento biologico, possiamo chiederci: è il razzismo che potrebbe avere un fondamento biologico?

Da qualche decennio almeno gli scienziati hanno capito che guardare al nostro passato evolutivo può aiutarci a capire non solo come siamo fatti, ma anche come pensiamo, come agiamo e come ci comportiamo in rapporto agli altri.

La rivoluzione neolitica, collocata all’incirca 10.000 anni fa, segnò il passaggio da una condizione nomade a una stanziale. Fino ad allora i nostri antenati vivevano in piccoli gruppi che si spostavano per procacciarsi le risorse necessarie al sostentamento. La cooperazione all’interno di ciascun gruppo è stata fondamentale per la sopravvivenza dei nostri antenati, ma altrettanto lo è stata la competizione tra gruppi rivali. Gli evoluzionisti chiamano questa strategia “parrocchialismo”[6]: siamo altruisti con individui con cui abbiamo famigliarità, lo siamo di meno con individui che non riconosciamo come parte del nostro gruppo. Alla psicologia sono ben note le dinamiche di in-group e out-group, che potrebbero essersi evolute e consolidate nel nostro cervello proprio nei contesti di competizione tra piccoli gruppi in cui i nostri antenati hanno vissuto.

Uno studio neuroscientifico pubblicato su Nature Neuroscience nel 2012 intitolato The neuroscience of race[7] ha tentato di fare il punto su come il cervello elabora le informazioni relative a immagini di individui appartenenti a gruppi etnici diversi. I risultati mostrano che anche il cervello di chi dichiara di non avere pregiudizi di sorta mostra preferenze per immagini di individui ritenuti più famigliari, attivando un circuito neurale che coinvolge aree che regolano le emozioni (come ad esempio l’amigdala) e le capacità di prendere decisioni[8]. Si tratterebbe dunque di una preferenza innata.

Significa quindi che siamo geneticamente condannati al razzismo dalla nostra storia di evoluzione cognitiva? Molte malattie sono geneticamente trasmissibili, ma ciò non significa che non possiamo mettere in campo contromisure per contrastarle.

Per lungo tempo è stato luogo comune pensare che biologia e cultura, rispettivamente il dominio dell’innato e il dominio dell’acquisito, costituiscano ciò che i filosofi chiamano un dualismo, ovvero una coppia di concetti o principi inconciliabili, separati tra loro da una barriera insormontabile, un po’ come la res cogitans e la res extensa di cartesiana memoria.

Oggi sappiamo invece che l’evoluzione umana è stata contraddistinta a un livello fondamentale proprio dalla interazione tra sfera dell’innato e dell’acquisito, dall’interazione tra geni e cultura. Il nostro comportamento modifica l’ambiente che ci circonda e così facendo modifica le pressioni selettive che sul lungo periodo agiscono sul nostro corredo genetico e sulle nostre facoltà cognitive.

Il concetto di natura umana non è un destino scritto nei nostri geni, siamo animali culturali, e in quanto tali possiamo “correggere” nel dominio dell’acquisito, della cultura, alcune tendenze innate.

Nell’ambiente socialmente iper-complesso in cui siamo inseriti oggi, la componente culturale è  rappresentata dalle norme etiche e sociali, dalle istituzioni, dall’educazione e dalla formazione. Senza spingersi fino alla biopolitica di Foucault[9] o a un controllo cognitivo à la Lakoff[10], una società che riconosca il razzismo come problema può mettere in campo una serie di contromisure, agendo all’interno di questo sistema di feedback.

Lo scorso ottobre è stato pubblicato un volume intitolato No razza sì cittadinanza[11] cui hanno partecipato diversi studiosi italiani (biologi, antropologi, linguisti, giuristi, genetisti, bioeticisti, giornalisti), curato da Manuela Monti, docente di scienze biomediche della Scuola Universitaria Superiore di Pavia, e Carlo Alberto Redi, professore di zoologia all’università di Pavia, Accademico dei Lincei e alunno del collegio Ghisleri. Gli autori del volume discutono della possibilità di eliminare dalla Costituzione la parola “razza”, termine a cui è dedicato un capitolo in cui Pietro Greco (giornalista scientifico) ne ricostruisce una breve storia, da Erodoto ai giorni nostri. Il dibattito è stato aperto nell’ottobre del 2014 da un appello rivolto dagli antropologi Olga Rickards e Gianfranco Biondi alle più alte cariche dello Stato, pubblicato sul sito web Scienza in rete[12]. L’idea è stata poi rilanciata dall’Istituto italiano di antropologia e dall’Associazione nazionale universitaria antropologi culturali. “È chiaro a tutti che abolire il termine ‘razza’ non significa certo abolire il razzismo: le parole però, come il fuoco e la ruota, sono uno strumento tecnico inventato dall’uomo di potenza devastante” scrivono in un capitolo i curatori del volume. “Il persistere nell’utilizzo di questo termine è dannoso poiché incoraggia atteggiamenti culturali discriminatori e frena l’integrazione dei migranti, non solo in Europa” (p. 43).

Un dibattito analogo era sorto in Francia nel 2012 quando François Hollande aveva promesso che si sarebbe impegnato a sopprimere la parola “razza” da tutta la legislazione in vigore. Il nuovo testo costituzionale avrebbe dovuto recitare “La Repubblica combatte il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia. Non riconosce l’esistenza di nessuna razza presunta”. Come scrive Giovanni Andrea Sacco, giurista dell’università di Pavia, dopo “l’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale, il 16 maggio del 2013, di una proposition del loi che prevede la sostituzione (nel codice penale, di procedura penale nel Code du Travail e in numerosi altri testi normativi, non ultima la legge 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa) del sostantivo ‘razza’ o dell’aggettivo ‘razziale’ con le espressioni ‘razzismo’ o ‘razzista’” (p. 57), per varie ragioni di tattica politica il progetto si è arenato e la promessa di Hollande non è andata a buon fine.

Non tutti gli autori del volume tuttavia concordano nell’asserire che la soluzione più opportuna sia quella di cancellare il termine “razza” dalla Costituzione. Secondo il genetista Guido Barbujani l’idea di eliminare la parola “razza” dall’Articolo 3 muove senz’altro da intenzioni nobili. Barbujani però dubita che Terracini, La Pira e tutti coloro che collaborarono alla stesura dell’Articolo 3 stessero pensando ai biologi: “in quel momento, non era tanto la discussione sulle nostre differenze biologiche che contava, ma la recente e drammatica esperienza delle leggi razziali del 1938” (p. 146). La presenza del termine “razza” servirebbe dunque per tenere viva la memoria.

“Talvolta sono contrari all’abolizione del termine razza dalle costituzioni proprio coloro che non ci aspetteremmo, cioè le vittime storiche delle discriminazioni razziali e i loro discendenti” nota nella sua analisi filosofica del termine razza Telmo Pievani, il quale tuttavia sostiene che “non abbiamo bisogno dell’essenzialismo sotteso al concetto biologico di razza né per discriminare né per vietare la discriminazione” (p. 116).

La democrazia funziona per discussione pubblica di argomenti e una volta che emergono pubblicamente fatti condivisi, questi possono venir posti a fondamento dei valori della vita di una comunità. Una costituzione che riconosca il razzismo come problema, o “malattia”, agisce all’interno di quel sistema correttivo di feedback rappresentato dalla sfera culturale delle istituzioni, delle norme, dell’educazione. Oggi abbiamo appurato oltre ogni ragionevole dubbio che il concetto di razza umana biologicamente non esiste. Esso è però legittimato e mantenuto dalla “persistenza del razzismo come fenomeno culturale e cognitivo con radicate basi evoluzionistiche e neurali” (p.117). Il razzismo è la malattia, la persistenza del concetto di “razza umana” il suo sintomo. Sarebbe opportuno che la cura vada a bersagliare la malattia, altrimenti risulta un palliativo. Forse risulterebbe più opportuno mettere nero su bianco nella Costituzione un principio anti-razzista, più che anti-razza. Stando a questa argomentazione allora l’Articolo 3 andrebbe così modificato: “senza discriminazioni di matrice razzista”.

Da La Mela di Newton, Micromega

[1] La Mela di Newton aveva già affrontato la tematica qui: http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/18/la-genetica-umana-eterno-ritorno-delle-razze/#more-51

[2] https://www.youtube.com/watch?v=KUHK-5Nk-MA

[3] http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/19/i-genetisti-italiani-le-razze-umane-non-esistono-finitela-di-usare-questo-termine/#more-760

[4] https://pikaia.eu/razza-e-dintorni-la-voce-unita-degli-antropologi-italiani/

[5] Si veda Desmond A. e Moore J. (2012) La sacra causa di Darwin, R. Cortina, Milano

[6] https://www.nature.com/articles/456326a 

[7] https://www.nature.com/articles/nn.3136

[8] https://www.scientificamerican.com/article/how-brain-views-race/

[9] Si veda Foucault M. (2005) Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano

[10]   Si veda Lakoff G. (2009) Pensiero politico e scienza della mente, Mondadori, Milano

[11]   Monti M., Redi C.A., No razza sì cittadinanza, Ibis Editore, 228 pagg., 12,00 euro

[12]   http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/olga-rickards-e-gianfranco-biondi/appello-labolizione-del-termine-razza/ottobre-2