Recensione de “Il comportamento, motore dell’evoluzione”

Recensione de “Il comportamento, motore dell’evoluzione” di Jean Piaget. A cura di Marco Celentano

Ci sono libri lungimiranti, che anticipano problematiche e intuizioni il cui valore emerge a pieno solo decenni (e talvolta secoli) dopo, grazie all’ausilio di nuove tecniche, scoperte, paradigmi. È questo il caso del libro di Piaget, Le comportement, moteur de l’evolution (1976), pubblicato, per la prima volta in lingua italiana da Mimesis (Pikaia ne ha parlato qui), nell’edizione qui recensita, grazie alla traduzione e curatela di Sara Campanella, storica ed epistemologa della biologia, dottore di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

Come ben coglie Elena Gagliasso, nella presentazione, l’opera costituisce, infatti, sia una lungimirante prefigurazione di prospettive oggi emergenti, basate sull’“integrazione di ecologia, evoluzione e sviluppo (Eco-Evo-Devo)” (p. 10), sia uno stimolo “dalla ricchezza inesauribile” per approfondimenti da intendere, non come superamenti di teorie o paradigmi scientifici, entro una corsa per l’accaparramento dell’egemonia epistemologica, quanto, piuttosto, come percorsi di “espansione tematica” che “interrogano il presente dal passato e viceversa” (ivi).

Basta, per convincersene, mettere a confronto alcune asserzioni di Piaget con i quattro capisaldi  cui si richiama, oggi, almeno in una delle sue più autorevoli letture, questa nuova impostazione:

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Il merito primo di questo libro consisteva, dunque, nell’indicare una via, che si sarebbe rivelata ricca di sviluppi fecondi e innovativi, rispondendo, criticamente, e con ulteriori, appropriati interrogativi, sia all’incrollabile fede dei neodarwinisti nella “lenta accumulazione di variazioni ereditarie favorevoli” dovuta all’interazione tra selezione esterna e mutazioni aleatorie, sia a quanti inclinavano a soluzioni di tipo prettamente lamarckiano, sia, infine, all’ipotesi metafisica, ciclicamente rispuntante ed oggi nuovamente in auge, che gli aspetti “creativi” dell’evoluzione e la comparsa dell’uomo non siano spiegabili con fattori immanenti ai processi storici e richiedano il ricorso a cause extra-naturali.

Rielaborando il concetto di “selezione organica” di Baldwin, l’ipotesi dell’“assimilazione genetica” di Waddington, il modello di “sistema aperto” di Weiss, e il proprio stesso concetto di “fenocopia”, Piaget giungeva, infatti, in questo testo, ad individuare proprio nel comportamento, e segnatamente nelle attività di assimilazione e accomodamento, esplorazione e attiva trasformazione dell’ambiente, svolte a diversi livelli da tutti gli organismi viventi, la principale forza motrice del processo che conduce alla differenziazione delle specie. Egli delineava, così, programmaticamente, una terza via tra neolamarckismo e neodarwinismo, basata, come suggerisce Campanella, sull’idea che l’evoluzione possa essere spiegata solo prendendo le mosse dalla documentazione e dal riconoscimento della “triplice capacità degli organismi di corrispondersi, di trasformarsi e di integrare ciò che li circonda” (p. 11).

Ma, naturalmente anche questo libro, come ogni cosa, reca i segni del tempo. Per citare un unico aspetto, Piaget fa ampio ricorso, soprattutto nel capitolo conclusivo del saggio, ad un concetto tradizionale, formalmente radiato dalla biologia di matrice darwiniana: quello di “finalità”. Egli individua, infatti, nel comportamento di tutti gli organismi, una “doppia finalità”: “l’ampliamento dell’ambiente e l’accrescimento dei poteri dell’essere vivente” (p. 121).

Con l’adozione di questo lessico, lo studioso svizzero, pur solitamente così attento alle implicazioni semantiche e alle ricadute filosofiche del linguaggio scientifico, finiva, curiosamente, per riecheggiare, da un lato, la terminologia tipica della biologia di matrice idealistica e romantica, dall’altro, il linguaggio nietzscheano della “volontà di potenza”.

Marco Celentano 
(Università di Cassino e del Lazio Meridionale)