Scimmie e sintassi

Chiedete a un bambino cosa sia lo “scimmiese” e lui non esiterà un secondo a rispondervi che è il linguaggio segreto che le scimmie usano tra di loro e noi non riusciamo a comprendere. Crescendo si impara che il linguaggio è una caratteristica posseduta solo dalla nostra specie, una sorta di confine che ci divide dagli altri animali, ma i

Chiedete a un bambino cosa sia lo “scimmiese” e lui non esiterà un secondo a rispondervi che è il linguaggio segreto che le scimmie usano tra di loro e noi non riusciamo a comprendere. Crescendo si impara che il linguaggio è una caratteristica posseduta solo dalla nostra specie, una sorta di confine che ci divide dagli altri animali, ma i recenti risultati ottenuti in Costa d’Avorio potrebbero rendere perlomeno più liquido, meno netto, questo confine. La comunicazione animale difatti è da sempre considerata rigida, in contrasto al flessibile linguaggio umano, e formata da richiami determinati e strettamente associati a stimoli ambientali; anche il celebre lavoro di Cheney e Seyfart sui cercopiteci grigioverdi, le prime scimmie tra le quali si scoprì la presenza in contesto naturale di segnali specifici per singoli predatori (che potevano quindi essere interpretati come frutto di una scelta semantica da parte dell’emittente), è stato perlopiù considerato come un elaborato sistema di reazione “rigida” a stimoli precisi. Il sofisticato sistema di comunicazione scoperto da Karim Ouattara e Alban Lemasson del Ethologie Animale et Humaine research group (CNRS / Université de Rennes 1), in collaborazione con Klaus Zuberbühler dell’Università di St. Andrews tra le scimmie di Campbell in Costa d’Avorio sembra però possedere caratteristiche troppo complesse perché ci si possa accontentare della spiegazione classica; il linguaggio umano, ancora ovviamente unicamente umano, sembra quindi avere dei precursori (o comunque delle versioni ipersemplificate), anche al di fuori del ristretto gruppo formato da noi e dai nostri antenati più prossimi.

In Novembre, con un articolo pubblicato su PlosOne, il team di ricercatori ha esposto per la prima volta il repertorio di sei vocalizzazioni tipiche di questa specie di scimmie arboricole, che probabilmente  proprio per questa difficoltà nel contatto visivo data dal loro habitat sono portate alla comunicazione vocale. In particolare sono state analizzate le vocalizzazioni emesse dai maschi di sei gruppi di scimmie di Campbell (all’interno dei quali è presente un solo maschio che vive in posizione periferica), tre dei quali abituati alla presenza dell’uomo. I risultati ottenuti con l’osservazione diretta sono stati poi confermati da esperimenti di stimolazione, con manichini a forma di predatore o con registrazione degli stessi richiami o dei richiami delle scimmie di Diana, una specie che vive a stretto contatto con le scimmie di Campbell.

Questi sei richiami, un numero peraltro già di per sé rilevante, presentano già da soli interessanti indizi di una capacità sintattica, e in particolare due di loro sembrano derivare da altri due tramite un processo di “affissazione”. Come per molte parole delle lingue umane, infatti, i due richiami “krak-oo” (generico disturbo) e “hok-oo” (generico disturbo proveniente dagli alberi) presentano una radice, “krak” e “hok”, che a sua volta ha un significato diverso se usata singolarmente come richiamo (significati peraltro più precisi, rispettivamente “leopardo” e “aquila”); il suffisso “oo” appare quindi come in grado di rendere più generale un richiamo specifico. Le altre due vocalizzazioni in repertorio sono “boom”, usato solo in contesti non-predatori, e “wak-oo”, dall’utilizzo molto simile a “hok-oo” (l’unica differenza sembra essere che questo, a differenza di “hok-oo” non viene mai utilizzato per segnalare la presenza di altri gruppi vicini). Una possibile conferma ulteriore di questa funzione “generalizzatrice” svolta dal suffisso “oo” sembra venire da un ulteriore esperimento svolto dagli stessi ricercatori: facendo ascoltare alle scimmie di Diana, che come già detto condividono spesso l’habitat delle scimmie di Campbell, questi stessi richiami si è scoperto che queste reagiscono al richiamo “specifico” ma non comprendono il richiamo “generalizzato”; non hanno quindi imparato la funzione del suffisso “oo” o non sono in grado di comprendere delle regole sintattiche (come ci si aspetterebbe se queste fossero effettivamente presenti nel repertorio vocale delle scimmie di Campbell).

Un mese dopo il primo articolo gli autori hanno aggiunto nuove informazioni su questo complesso sistema di comunicazione, questa volta su PNAS. Continuando le osservazioni su questa specie di scimmie arboricole, i ricercatori hanno scoperto come raramente i richiami vengano lanciati singolarmente: nella stragrande maggioranza delle volte le sei vocalizzazioni vengono combinate tra loro in lunghe sequenze contenenti in media venticinque di loro. In questa maniera una specie caratterizzata da una scarsa flessibilità vocale (l’uomo è un eccezione nell’ordine dei primati, grazie a un peculiare apparato fonatorio) riesce a veicolare informazioni sorprendentemente complesse rispetto a quelle che ci si attenderebbe, “modulando” un messaggio grazie alla capacità di concatenare più vocalizzazioni in sequenze. Questo studio, che sicuramente non finisce qui ma promette nuovi interessanti sviluppi nei mesi e anni a venire, si inserisce in una serie oramai cospicua di scoperte che hanno modificato la nostra concezione della comunicazione animale: lungi dall’essere un frutto tardivo sbocciato improvvisamente sul ramo umano, alla periferia del cespuglio primate, il linguaggio in senso lato, ovvero la capacità di elaborare segnali complessi, grammaticali e semantici, sembra una caratteristica multiforme e diffusa perlomeno in altri rami dell’ordine dei primati. Se è indubbiamente vero che noi siamo la specie che lo ha sviluppato ai massimi termini, tanto che si fa fatica a paragonare la nostra produzione linguistica al resto della comunicazione animale, pure molte delle sue caratteristiche hanno, a quanto pare, una storia molto più antica della nostra.

Marco Michelutto 

 

Riferimenti:

 Karim Ouattara, Alban Lemasson & Klaus Zuberbühler, “Campbell’s Monkeys Use Affixation to Alter Call Meaning”, PLoS ONE 4(11): e7808. doi:10.1371/journal.pone.0007808

Karim Ouattara, Alban Lemasson & Klaus Zuberbühler,Campbell’s monkes concatenate vocalizations into context-specific call sequences”, PNAS, Published online before print December 9, 2009, doi:10.1073/pnas.0908118106