Alla ricerca di formichieri giganti, draghi di Komodo e armadilli

Pikaia ha letto per voi i racconti dei primi tre viaggi organizzati da David Attenborough per documentari della BBC

La possibilità di viaggiare verso luoghi esotici ha sempre esercitato sull’uomo un fascino magnetico e irresistibile. Forse è per questo motivo che non ho potuto resistere all’invito di Pietro Bassi di leggere Avventure di un giovane naturalista, libro di David Attenborough, recentemente pubblicato in edizione italiana dalla casa editrice Neri Pozza (2020).

Il libro ricostruisce la nascita di Zoo Quest, il primo programma televisivo della BBC pensato e realizzato da Attenborough nel 1954 per mostrare sia la ricerca che la cattura di animali rari da portare allo zoo di Londra. Avventure di un giovane naturalista raccoglie gli appunti di Attenborough relativi ai viaggi nella Guyana Britannica (in America centrale), nel Borneo e sull’isola di Komodo (in Indonesia) e in Paraguay (di nuovo in America centrale). Da amante dei documentari naturalistici e spettatore del bellissimo A Life on Our Planet (da poco disponibile anche in italiano), è stato inizialmente un po’ straniante leggere le tante pagine in cui, in modo spesso goffo e improvvisato, Attenborough e i suoi compagni di viaggio si ingegnano per catturare le proprie prede:

“nelle ultime settimane –scrive Attenborough nel capitolo relativo al viaggio in Indonesia – Charles e io avevamo discusso spesso con Sabran del miglior tipo di trappola da usare per catturate un drago e alla fine avevamo scelto quella con cui Sabran catturava i leopardi nel Borneo, che aveva il gran merito di poter essere costruito facilmente, utilizzando soltanto materiali che si trovavano nella foresta e una fune robusta”.

In modo analogo risulta decisamente strano leggere di Attenborough che torna dalla Guyana Britannica con un cestino contenente un piccolo, non ancora svezzato, di coati rosso (oggi presente nell’Elenco delle specie esotiche invasive di rilevanza unionale dell’Unione Europea), tenuto da Attenborough all’interno della propria camicia per paura che prendesse freddo durante il viaggio aereo, che lo avrebbe portato nel Regno Unito assieme a formichieri giganti, ragni, scorpioni, serpenti, lamantini, pappagalli e capibara filmati (e catturati) nelle foreste di quella che era allora la Guyana Britannica.

Avventure di un giovane naturalista si presenta al lettore come un vero e proprio viaggio nel tempo non solo perché ci riporta alla seconda metà degli anni ‘50 del Novecento sulle orme di un giovane Attenborough, ma anche perché rimanda a una fase, che oggi sembra lontanissima nel tempo, in cui l’idea di natura incontaminata era ancora ben diffusa e non si aveva alcuna percezione degli effetti negativi che le nostre attività già allora in realtà avevano.

A meno di settant’anni di distanza dai viaggi descritti in Avventure di un giovane naturalista, ci confrontiamo con prospettive di impatto antropico decisamente preoccupanti. Ad esempio, come evidenziato dallo studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Nature Sustainability da un team internazionale di ricercatori guidato dalle università di Leeds e di Oxford, milioni di chilometri quadrati di habitat naturali potrebbero andare persi entro il 2050. Di conseguenza, più di 1.300 specie rischiano di perdere almeno un quarto del loro habitat e centinaia potrebbero perderne almeno la metà. 

Come segnala il Living Planet Report 2020, pubblicato a settembre dal Wwf e dalla Zoological Society of London, l’estinzione, per ora, è più rapida degli sforzi degli scienziati per conservare l’attuale biodiversità. Come evidenziato infatti da numerose pubblicazioni, perdiamo ogni anno dalle 11.000 alle 58.000 specie concentrate soprattutto nelle regioni tropicali e nei paesi più poveri. Come ha scritto il nostro Direttore Telmo Pievani in La terra dopo di noi “estinguiamo specie che nemmeno abbiamo fatto in tempo a studiare e classificare. (…) In pratica stiamo spolpando il pianeta”.

“Così assistiamo – scrive Pievani – all’amaro paradosso di un mammifero di grossa taglia, prematuramente auto-definitosi sapiens, che sta distruggendo ed estinguendo qualcosa che ancora conosce molto poco e che quindi non conoscerà mai. Quando una strada e una miniera devastano, calpestano e deturpano un pezzo di foresta equatoriale insieme ai suoi abitanti animali e vegetali, possiamo star sicuri che centinaia di specie che nemmeno conoscevamo sono state spazzate via per sempre”.

La devastazione di interi ecosistemi ha come conseguenza anche la forzata migrazione di specie in altri luoghi nel tentativo di adattarsi a nuovi ambienti, ammassandosi nelle vicinanze di centri urbani. Da queste dinamiche, come già sapevamo e abbiamo sperimentato nell’ultimo anno, sono derivati anche gli spillover di cui le scimmie antropomorfe dell’Africa occidentale, con la trasmissione del lentivirus Hiv responsabile dell’ Aids, e i pipistrelli dell’Africa centrale e occidentale nella trasmissione di Ebola sono due casi paradigmatici.

“Le specie, se lasciate a sé stesse senza limiti, tendono a moltiplicarsi a dismisura – scriveva Telmo Pievani su La Lettura #339. Noi stiamo facendo lo stesso, è l’istinto fondamentale della vita. La specie umana, per propria inventiva, ha imparato a consumare indefinitamente le risorse del pianeta. E allora succede come quando un’alga invasiva colonizza un lago eutrofizzato o i batteri invadono una piastra piena di nutrimento: proliferano. Dopo di che, o si trova un modo per produrre energia illimitata, tirando fuori il coniglio dal cilindro della creatività tecnologica umana, o le risorse finiscono e arriva il collasso. La differenza tra noi e le alghe è che noi lo sappiamo, che di solito va a finire così. Quando l’Antropocene mostrerà la sua faccia cattiva, nessuno potrà usare l’ignoranza, o la natura matrigna, come scusa per non aver fatto abbastanza”.

Passare con Attenborough da Avventure di un giovane naturalista alle immagini di A Life on Our Planet può essere un modo, forse brutale, per riflettere su quanto è accaduto agli ecosistemi nei pochi decenni che separano queste due testimonianze. Il messaggio che ne emerge è che potremmo avere tante soluzioni da attuare per provare a prosperare assieme ad una natura altrettanto prosperante, abbandonando l’attuale situazione in cui il progresso avviene a danno della natura e delle future generazioni. Sino a qui non ci siamo riusciti, ma chissà che in futuro anche a noi non capiti, come accaduto ad Attenborough, di rimanere affascinati da un armadillo e pensare che “è bello, è proprio bello” e che vale la pena darsi da fare per conservarlo assieme al resto della biodiversità.