Anche le teorie complottiste avrebbero una ragione comportamentale

Le tendenze cospirazionistiche sarebbero originate da un insieme di fattori psico-sociali che modellerebbero lo stile cognitivo dell’individuo e ne altererebbero la percezione sensoriale sull’interpretazione del mondo esterno

La specie umana nel corso della propria storia ha avuto necessità di credere a storie fittizie per darle un senso esistenziale e per aggrapparsi a speranze consolatorie. Questa tendenza alla narrazione di eventi potrebbe rivelare un sottofondo comportamentale se considerato come strategia difensiva o protettiva nei confronti dell’ambiente esterno e di chi ne volesse avere il comando a spese di altri.

All’interno di questo frame è stata condotta una ricerca pubblicata su Journal of Individual Differences sul significato psicosociale del complottismo e delle teorie cospiratrici – intese come costruzioni di un pensiero che si interfaccia alla realtà con uno sguardo ancor più cupo e allertato nei confronti del mondo in generale – cercando di estrapolare i fattori neuro-cognitivi alla base di questo modello.

Gli autori dello studio – Joshua Hart professore associato di psicologia e la sua studentessa Molly Graether della Union College di New York, Stati Uniti – propongono la tesi secondo la quale persone con certi tratti della personalità e stili cognitivi hanno più probabilità di credere nelle teorie cospirazioniste rispetto ad altre.

La ricerca è stata condotta intervistando oltre un migliaio di persone adulte americane alle quali sono state sottoposte inizialmente domande generiche relative alla loro personalità, alle loro inclinazioni di parte e al loro background demografico, e successivamente il loro parere su questioni correlate con dichiarazioni e argomenti attrattori di vedute complottistiche (chi controlla il mondo, la politica, l’economia, la verità sull’inquinamento, manipolazione scientifica, ecc…).

I risultati hanno mostrato chiaramente che il più forte predittore delle credenze cospirazioniste era una costellazione di caratteristiche della personalità collettiva definita dagli autori schizotipia. In altre parole si è notato che gli individui che manifestano comportamenti tendenziosamente cospiratori hanno generalmente una differente sensibilità percettiva relativamente alla deduzione di senso o alla ricaduta intenzionale colta su enti o oggetti non umani.

I due studiosi hanno sottolineato come i risultati non vogliano tuttavia manifestare differenze cliniche tra individui con questa caratteristica e gli altri, ma anzi evidenziarne le motivazioni psico-scocio-evolutive alla loro base.

Quello che emerge ha più a che fare con differenziazioni etologiche interne alla nostra specie. Come per altre, non tutti gli individui assumono le stesse risposte nei confronti dell’ambiente. Anche per gli essere umani sembrerebbe che il sostrato comune ai soggetti di questo tipo sia legato alla propria salvaguardia difensiva e del suo gruppo, e che in parte sia il retaggio di un pensiero arcaico dei nostri antenati, che continua a vivere in noi rimodulato su problematiche del mondo contemporaneo.

Dallo studio quindi non emerge una conclusione sulla bontà o meno di questi stili comportamentali ma una ricerca del senso profondo che li genera. Il messaggio vorrebbe indicare che probabilmente “allora come oggi” forse c’è un po’ di conforto nell’idea che ci sia qualcuno, o un piccolo gruppo di persone, responsabile di tutto. Se sta succedendo qualcosa, allora almeno c’è qualcosa che si potrebbe fare.

In una realtà complessa come la nostra tutto è amplificato e la dose di ambiguità che ne emerge è colta proprio da coloro che maggiormente sono attratti a coglierne il senso laddove altri Homo sapiens invece non vedono altro che una fantasiosa immaginazione. Cercare una causa e darle un senso, un capro espiatorio per tutto, potrebbe essere una modalità interpretativa della realtà radicata nella mente da “preda” come probabilmente era quella dei nostri antenati umani, in cui per ovviare alle difficoltà e alle paure della vita selvaggia dovevano crearsi degli elementi consolatori e soprattutto crederne veramente nell’esistenza.

Fonte:
Joshua Hart, Molly Graether. Something’s Going on Here: Psychological Predictors of Belief in Conspiracy Theories. Journal of Individual Differences, 2018; DOI: 10.1027/1614-0001/a000268

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