Animali e incesto: un tabù che non è poi così tabù

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Un’analisi della letteratura scientifica ridimensiona la presupposta ubiquità dell’avversione verso i rapporti incestuosi nel regno animale e mette in luce una tendenza a pubblicare preferenzialmente studi che ne dimostrino l’assenza

Per anni i modelli teorici e la ricerca empirica hanno percorso strade divergenti nel tentativo di rendere conto dei rapporti incestuosi nel regno animale. Mentre sempre più studi sembravano confermare l’ipotesi che, in larga misura, gli animali tendessero a evitare l’accoppiamento con i “parenti” (un fenomeno noto come inbreeding avoidance), i modelli di genetica di popolazione dipingevano uno scenario molto più sfumato. In particolare, a livello teorico, le strategie di inbreeding avoidance potrebbero sì evolversi, ma non necessariamente. La loro diffusione in una popolazione, infatti, dipenderebbe dalla complessa interazione di numerosi fattori, la quale si traduce dunque in un rapporto costi/benefici variabile. Sulla base di questi presupposti teorici, l’incesto (o inbreeding, in inglese; d’ora in avanti ci avvarremo di questa dicitura) dovrebbe essere molto più comunque in natura di quanto appaia dalle osservazioni empiriche del comportamento animale.

Selezione naturale e incesto

Per quale motivo la selezione naturale dovrebbe promuovere la diffusione di comportamenti che evitino l’inbreeding? Quali effetti deleteri produce sulla fitness l’accoppiamento tra individui strettamente imparentati? Le spiegazioni più semplici al momento sono due e riguardano l’architettura genetica dei tratti adattativi. La prima riguarda la recessività delle mutazioni negative: in altre parole, l’effetto deleterio di una mutazione recessiva non si manifesta se è compensato (o “mascherato”) dalla presenza dell’allele, cioè la variante genetica, dominante. Due individui strettamente imparentati, condividendo un maggior numero di alleli, hanno maggiori probabilità di tramandare le due copie deleterie alla prole. Essendo omozigoti per l’allele negativo, la prole manifesta il fenotipo meno “adatto” e dunque la sua fitness diminuisce. Simmetricamente, l’aumento dell’omozigosi determinato dall’inbreeding può condurre non solo all’esposizione di tratti deleteri recessivi, ma può anche impedire l’espressione di tratti “ottimali” che dipendono dalla presenza di alleli diversi (o eterozigosi). L’insieme degli effetti negativi sulla fitness della prole che derivano direttamente dall’inbreeding prende il nome di inbreeding depression.

Dalla descrizione precedente sembrerebbe del tutto ovvio aspettarsi che gli animali debbano in ogni caso evitare, in tutti i modi possibili, di incorrere in inbreeding. Tuttavia, la selezione naturale opera sulla base di vantaggi relativi e non assoluti. Sebbene l’inbreeding possa condurre alla inbreeding depression, l’effetto negativo sulla fitness non è uguale per tutti i tratti e varia a seconda delle circostanze. Come se non bastasse, è teoricamente possibile immaginare degli scenari in cui il costo dell’inbreeding depression sia talmente irrisorio che la selezione naturale non può favorire la diffusione di strategie di inbreeding avoidance. A complicare ulteriormente il quadro c’è la presenza di casi in cui i vantaggi dell’inbreeding superano i suoi svantaggi. In uno scenario simile, l’aspettativa teorica è che la selezione favorisca l’accoppiamento tra individui strettamente imparentati – in questo caso si parla di kin preference (o “preferenza [sessuale] per i parenti”). Ricordiamo, infatti, che il concetto di fitness è stato espanso già a partire dagli anni ‘60, passando dalla prospettiva dell’individuo a quella del singolo gene (inclusive fitness). Questo vuol dire che il successo riproduttivo di un gene, e quindi anche dell’individuo che lo contiene, non dipende solo dalle copie che passa verticalmente alla prole, ma anche dalle copie che si trovano nei corpi dei suoi parenti. In tal senso, accoppiarsi con dei parenti potrebbe avere dei vantaggi in termini di inclusive fitness e, a seconda delle circostanze, tali vantaggi potrebbero prevalere sugli svantaggi dell’inbreeding depression.

Cosa dicono gli studi

Per fare chiarezza su questo apparente disaccordo tra osservazioni sperimentali e predizioni teoriche, un gruppo di ricerca dell’Università di Stoccolma (Svezia) e dell’Università di Wageningen (Paesi Bassi) ha effettuato una meta-analisi, cioè un’analisi statistica con cui gli scienziati sintetizzano le conoscenze della letteratura esistente. Hanno selezionato ben 139 studi sperimentali dove si monitorava la scelta sessuale “parente vs non-parente” di diverse specie animali diploidi, andando a coprire circa 40 anni di ricerca etologica. I sorprendenti risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Nature Ecology & Evolution.

Il primo di questi risultati ha più a che fare con gli scienziati che con la scienza. Gli autori si sono infatti accorti che c’è una sovrabbondanza numerica di studi che confermano l’ipotesi di inbreeding avoidance. Una ragionevole obiezione del lettore potrebbe essere la seguente: tale sovrabbondanza non dovrebbe essere considerata una prova a favore della fondatezza dell’inbreeding avoidance? Non proprio, e adesso vediamo perché. Quando si costruisce un grafico che rappresenta tutti gli studi inclusi nella meta-analisi, in funzione della significatività statistica e dell’effetto (<0, kin preference; 0, nessuna preferenza; >0, inbreeding avoidance), ci si rende conto che gli studi che hanno più alta significatività statistica ed effetti più alti sono equamente distribuiti tra kin preference e inbreeding avoidance. Il problema – o meglio, l’asimmetria – sorge quando si parla di studi con effetti più bassi e non signiticativi. In questo caso, il grafico è dominato solo da studi che mostrano inbreeding avoidance. Volendo ulteriormente semplificare, si registra una tendenza a pubblicare studi con piccolo effetto e anche non significativi che si allineano con l’inbreeding avoidance, ma non quelli che si allineerebbero con la kin preference. Che questa imparzialità di pubblicazione abbia a che fare con la connotazione negativa che l’incesto ha in numerose culture umane? Immagino che questo sia materiale per un ulteriore studio.

Grazie a delle correzioni statistiche, gli autori della meta-analisi sono stati in grado di tenere conto del bias di pubblicazione e trarre delle conclusioni generali. Nello specifico, in 9 su 12 di queste correzioni, non si registra nessuna tendenza generalizzata ad evitare l’inbreeding negli animali inclusi negli studi. Anzi, in alcune varianti di queste analisi correttive l’andamento è sovrapponibile ad una situazione di “non preferenza” o addirittura di kin preference. Servono ulteriori e più approfondite analisi per districare il bandolo di questa matassa di effetti statistici. In conclusione, gli autori non hanno trovato nessuna indicazione che gli animali tendano ad evitare l’accoppiamento tra parenti, in accordo con le predizioni teoriche che considerano l’inbreeding avoidance come una strategia comportamentale la cui vantaggiosità dipende da numerosi fattori.

Tutto in famiglia? Dipende

Interrogando ulteriormente i dati, gli autori hanno identificato alcuni dei sopracitati fattori i quali, sebbene in misura lieve, sembrerebbero spiegare una parte della variabilità dell’inbreeding avoidance. In linea con le aspettative teoriche, il coefficiente di relatedness (indicato con r) è correlato positivamente con l’inbreeding avoidance: più due individui sono imparentati (una vicinanza “genetica” misurata proprio da r), maggiore sarà l’impatto negativo dell’inbreeding depression e quindi maggiori saranno gli incentivi a voler evitare l’accoppiamento con i parenti. Sorprendentemente, sebbene la correlazione vada nella direzione corretta (positiva), l’impatto di r è molto basso, con un misero 3% di variabilità opportunamente spiegato dalla “vicinanza genetica” tra gli individui. Un altro fattore che sembra influire moderatamente sull’inbreeding avoidance è la passata esperienza con membri della propria famiglia. A quanto pare, l’esposizione ai parenti durante lo sviluppo sembra giocare un ruolo importante nell’influenzare la probabilità che un individuo, da adulto, eviti o meno di fare inbreeding. Una possibile spiegazione è che, in certe specie animali, interagire con i propri “parenti” durante le prime fasi di sviluppo sia necessario per memorizzarne le caratteristiche fenotipiche (come l’odore, ad esempio) per poi utilizzarle per evitare di accoppiarvisi in futuro. Quest’ultima sembra più configurarsi come un prerequisito per evolvere comportamenti di inbreeding avoidance piuttosto che come una ragione evolutiva per farlo.

Come i bias influenzano la ricerca

Per tirare le somme, evitare rapporti incestuosi (nel senso più neutrale del termine) non sembra poi essere una prerogativa ubiquitaria negli animali. O almeno, degli animali diploidi dei 139 studi inclusi in questa meta-analisi. In accordo con le predizioni teoriche, le strategie di inbreeding avoidance evolvono rispondendo ad un panorama estremamente complesso di fattori (di cui r e l’esposizione ai parenti sono solo due esempi) e la loro vantaggiosità è dunque una quantità variabile, che assume valori diversi – e potenzialmente anche opposti, diventando svantaggiosi – in contesti diversi. Molto più incisivamente, questa meta-analisi dovrebbe far riflettere sul subdolo ma pervasivo effetto di idee preconcette sull’impresa della ricerca scientifica, le quali possono inavvertitamente introdurre bias e imparzialità e, dunque, condurre ad errori nella nostra interpretazione del mondo. Una più sincera e attenta autocoscienza dei nostri pregiudizi può però aiutarci a mitigarne l’effetto di distorsione, e quindi permetterci di rendere il nostro approccio alla realtà quanto più pristino possibile.

Riferimenti:

de Boer, R.A., Vega-Trejo, R., Kotrschal, A. et al. Meta-analytic evidence that animals rarely avoid inbreeding. Nat Ecol Evol (2021). https://doi.org/10.1038/s41559-021-01453-9

Immagine: di Bernhard Eickmann da Pixabay