L’archeologia cognitiva e il suo contributo allo studio delle specie umane antiche: intervista alla dottoressa Annapaola Fedato

Spagna – Italia. Non si tratta di una partita di calcio. La rubrica “l’evoluzione non ha genere” continua con una interessante conversazione online tra Pikaia e la Dr.ssa Annapaola Fedato. La ricercatrice si occupa di archeologia cognitiva e indaga l’evoluzione della cognizione umana basandosi su studi replicativi e sui reperti archeologici.

La Dr.ssa Annapaola Fedato ha conseguito il dottorato all’Universidad de Burgos, in Evoluzione umana e paleoecologia. Sotto la supervisione del Prof. Emiliano Bruner, si è occupata dell’integrazione visuospaziale e di archeologia cognitiva. Il suo lavoro di tesi ha evidenziato come gli oggetti potrebbero aver influenzato le abilità cognitive dei nostri antenati e ha messo in luce un aspetto fondamentale dell’essere umano: la tecnologia. 

In un articolo di Giovanni Coppolino Billé sul libro di Vittorio Gallese e Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e Neuroscienze, si legge: “il corpo è alla base della consapevolezza pre-riflessiva di sé e degli altri e il punto di partenza di ogni forma di cognizione esplicita e linguisticamente mediata degli oggetti stessi. L’utilizzo del brain imaging, gli studi sui deficit conseguenti a lesioni cerebrali e la registrazione dell’attività di singoli neuroni in modelli animali consentono oggi di rivedere il sistema motorio del lobo frontale del cervello, diviso originariamente in tre aree: l’area motoria primaria, l’area sei di Brodmann e il lobo prefrontale”.  

Tuttavia, il sistema motorio non produce solo movimenti ma soprattutto atti motori, cioè movimenti finalizzati ad uno scopo, come ad esempio afferrare un oggetto. La manipolazione degli oggetti fa parte dell’evoluzione dell’uomo, della sua identità culturale e, in qualche modo, ne ha plasmato anche l’evoluzione anatomo-fisiologica e cognitiva. L’oggetto, quindi, non è più inteso come entità esterna. 

Esatto, sono perfettamente d’accordo con quanto ha letto ed elaborato. Primo, varia il punto di vista nell’ambito delle neuroscienze: non si parla più di “cervellocentrismo o corticocentrismo”, ma la cognizione e la percezione vanno anche al di fuori della scatola cranica. Secondo, le nuove tecnologie ci consentono di verificare diverse ipotesi, soprattutto quando ci sono disfunzioni. Il terzo aspetto riguarda gli oggetti e la cultura materiale. Gli utensili sono sempre stati considerati il frutto dell’intelligenza e dell’ingegno umano. Tuttavia, l’oggetto non è solo qualcosa presente nel nostro cervello, cioè il risultato dell’elaborazione della corteccia cerebrale, che ci consente di costruirlo e utilizzarlo. Il corpo riceve un continuo feedback dagli oggetti stessi: ecco l’aspetto cognitivo della manipolazione e dell’uso di strumenti.

Dal punto di vista evolutivo, ci si chiede, quasi come nel dilemma dell’uovo e della gallina, se il cervello si sia evoluto e dopo abbiamo iniziato a produrre oggetti o sia stata la creazione di oggetti che ha potenziato delle aree preesistenti. Probabilmente sono vere entrambe le cose. Nonostante il cervello abbia strutture avanzate, continuiamo ad appoggiarci agli strumenti come fossero supporti esterni. Quindi, gli oggetti sono parte sensoriale e percettiva del nostro corpo, come afferma la teoria della mente estesa. E il corpo è inteso come componente strutturale e percettiva di un organismo, capace di collegare gli spazi interni (neurali) ed esterni (ambientali). Il cervello, il corpo e l’ambiente si integrano e generano i processi cognitivi. Gli oggetti possono essere integrati nel sistema cognitivo per ampliarne le possibilità. 

STEM sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica. In alternativa, STEAM sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Arti e Matematica. L’educazione di tali materie è più che creare acronimi: è una filosofia dell’educazione che abbraccia abilità e materie di insegnamento in un modo che assomiglia alla vita reale. L’Arte e le arti applicate si uniscono alle discipline scientifiche e tecnologiche perché consentono di formare professionalità complete, essendo complementari e trasversali alle altre. In questo contesto si inseriscono anche l’informatica umanistica, il machine learning applicato all’archeologia, come negli studi della Dr.ssa Arianna Traviglia, direttrice del Centre for culturale heritage technology dell’IIT di Venezia, e l’archeologia cognitiva. 

Io ho conseguito, all’Universidad de Burgos, il dottorato in Evoluzione umana e paleoecologia, lavorando nel centro di ricerca sull’evoluzione umana e, in particolare, nel laboratorio del Prof. Emiliano Bruner, paleoneurobiologo. Nel centro di ricerca ci sono archeologi, storici, geologi e biologi che lavorano insieme. Oggi, in archeologia si applica tanto il machine learning quanto l’elettrotomografia computerizzata (TAC). La separazione tra le discipline è sempre più sfocata. L’archeologia cognitiva, per esempio, è la disciplina che consente di studiare l’evoluzione della cognizione umana, applicando teorie psicologiche, l’anatomia comparata, l’archeologia sperimentale e una discreta dose di statistica. Attraverso i reperti archeologici si cerca di comprendere alcune caratteristiche delle menti preistoriche che le hanno prodotte e come la loro presenza nella nicchia ecologica di una specie possa influire sul loro sviluppo.  

Scienza eterogenea, ma sempre parte di quella “unica sapienza umana”, di cui parla Cartesio, e della quale le singole discipline formano una branca particolare. “Tutte le scienze non sono nient’altro che l’umano sapere, il quale permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gli oggetti a cui si applica”. 

Esatto, e oggi possiamo informarci su quasi tutto, anche il ricercatore e la ricercatrice possono formarsi su temi al di fuori di quelli strettamente collegati al suo ambito di studio. Oggigiorno, con il rapido accesso alle fonti in rete, ci si può formare in qualsiasi ambito mediante workshops, corsi online, webinar e molto altro. Siamo nella fase della formazione libera che l’università non fornisce. Infatti, il percorso universitario, così com’è strutturato, dà una formazione settoriale, ma nella pratica bisognerebbe formarsi continuamente, essere “plastici”. E non tutti vogliono o devono obbligatoriamente farlo. Però, per fare un esempio, le riviste scientifiche oggi sono più inclini a pubblicare articoli con dati sperimentali e analisi statistiche. In altre parole, si preferisce un articolo che presenti una analisi multivariata (cioè, l’insieme dei metodi statistici usati per analizzare simultaneamente più caratteri N.d.A.), a uno che faccia una analisi solamente descrittiva.

Tuttavia, quando si tratta di pochi reperti, utilizzare metodi statistici complessi può risultare quasi controproducente, ma è necessario quando ci sono molte variabili da analizzare. Quindi, l’apprendimento di discipline non affrontate nel proprio percorso di studi dipenderà dalla volontà del ricercatore e della ricercatrice. A livello universitario o si deciderà di adottare uno stile personalizzante del corso di studi o tutto continuerà a dipendere dalla volontà del ricercatore e della ricercatrice di implementare ciò che l’università non gli ha dato. Questo si sta vedendo soprattutto per la statistica. È chiaro che anche i corsi di studio umanistici si troveranno a dover implementare una parte di statistica, considerando che ha forte riscontro nella realtà di tutti i giorni.  

Sono d’accordo con lei. In risposta a domande complesse possiamo scegliere in modo casuale oppure, avendo gli strumenti giusti, compiere una scelta informata. Studiare elementi di statistica, in ogni ambito, significa acquisire strumenti sull’osservazione, sulla raccolta, sull’analisi e sull’interpretazione dei dati della realtà. Tornando ai suoi studi, la struttura e la funzione della mano hanno si è specializzata nell’evoluzione, sia nelle ossa che nei muscoli. Afferrare oggetti e manipolarli significa interagire fisicamente con lo strumento e integrare lo strumento stesso all’interno dello schema corporeo. E gli strumenti esercitano diverse reazioni elettrofisiologiche (l’elettrofisiologia è la branca della fisiologia che studia il funzionamento dell’organismo dal punto di vista elettrico), con differenze tra maschi e femmine. Le donne sono in grado di percepire dettagli superficiali più fini rispetto agli uomini. Secondo le sue ricerche dipende dal dimorfismo sessuale nelle dimensioni della mano e nella maggiore densità delle ghiandole sudoripare. Gli strumenti possono anche influenzare e alterare la condizione cognitiva ed emotiva di un soggetto durante l’uso e l’esplorazione. Come bisognerebbe leggere queste differenze in chiave evolutiva? Il dimorfismo sessuale a cosa potrebbe essere dovuto (fattori biologici o culturali o ambientali)? Ha influenzato i comportamenti? 

A livello di dimorfismo, in media, le donne hanno mani più piccole degli uomini e, generalmente, le persone con le mani più piccole hanno una densità maggiore di ghiandole sudoripare. In chiave evoluzionistica si possono fare esperimenti di archeologia per vedere come la dimensione della mano influisca sull’uso e sulla produzione dell’industria litica. Però questo non entra in un contesto culturale. Il fatto che, nelle scienze, si utilizzino schemi sociali precostituiti e perpetrati nel tempo (per esempio, una rigida distinzione sessuale dei ruoli) non ha molto senso a livello scientifico. La cultura non fossilizza. Le ossa sì. Quindi, invece di definire chi svolgesse quale ruolo, è più appropriato studiare quale conformazione muscolare poteva comportare dei vantaggi dal punto di vista dell’evoluzione, favorendo il soggetto in qualche attività. Infatti, recenti studi sulla biomeccanica della mano stanno evidenziando che specifiche conformazioni muscolari influiscono sull’uso e sulla manipolazione di oggetti.  

Lo sviluppo e l’utilizzo di strumenti nelle varie specie umane ha comportato un maggiore sviluppo cerebrale globale, una modificazione di circuiti preesistenti, o lo sviluppo di specifiche aree rispetto ad altre? Gli strumenti utilizzati oggi coinvolgono meccanismi neuronali diversi sia per quanto riguarda la produzione di oggetti che la manipolazione. 

La relazione tra evoluzione tecnologica e dimensioni del cranio umano, in termini di forma e dimensione, è stata spesso al centro del dibattito scientifico. È vero che l’aumento del volume cerebrale comporta lo sviluppo di una tecnologia più complessa? L’espansione cranica umana degli ultimi tre milioni di anni è associata ad un ingrandimento (assoluto e relativo) volumetrico del cervello. Tuttavia, l’aumento generale della scatola cranica non fornisce informazioni chiare su quali aree del cervello si siano effettivamente espanse e se l’abbiano fatto rispetto ad altre. Homo sapiens e Homo neanderthalensis, a parità di volume cranico, mostrano sostanziali differenze a livello comportamentale e culturale. Quindi, al momento, non può esserci una risposta univoca e chiara. Le teorie più accreditate indicano che ci sarebbero stati dei circuiti preesistenti che potevano essere stati sviluppati per caso o per altre funzioni e che, dopo, si siano ulteriormente sviluppati. L’utilizzo degli strumenti attuali potrebbe favorire o sfavorire la plasticità cerebrale perché, ad esempio, uno smartphone racchiude in sé più funzionalità, precedentemente a carico di strumenti diversi. In ogni caso, i circuiti cerebrali si modificano durante l’evoluzione e in questo processo gli strumenti hanno un ruolo per niente marginale. Sarebbe interessante anche considerare la “rigidità” cerebrale, non solo la plasticità. 

C’è una correlazione tra forma e grandezza degli oggetti prodotti e manipolati, e sviluppo delle capacità cognitive e percettive dell’uomo nel corso dell’evoluzione? 

L’ergonomia è un aspetto importante per un uso funzionale degli oggetti. In termini evoluzionistici semplicistici, se l’oggetto ergonomico è più funzionale, dovrebbe essere preferito e replicato in quella forma. Sono molti interessanti gli studi di Gibson sull’affordance: se un oggetto è funzionale non cambia durante l’evoluzione. Per esempio, la forchetta risale probabilmente al IV secolo d.C. e non ha subito cambiamenti sostanziali. Funzionalità ed ergonomia dello strumento hanno fatto sì che l’oggetto non sia stato modificato molto nel corso dei secoli. Per esempio, l’ascia a mano (in inglese handaxe), strumento tipico del paleolitico inferiore e medio, è stato ritrovato in diverse parti del mondo, per lungo tempo e in grande quantità, con una forma quasi invariata e con una strategia di produzione pressoché costante. Possiamo immaginare che, se la cultura acheuleana sia rimasta invariata per così tanto tempo, probabilmente è perché quell’oggetto svolgeva correttamente la funzione per cui veniva usato. 

L’archeologia cognitiva può dare indicazioni solo su aree corticali o anche su altre regioni cerebrali? L’attenzione è sempre stata sulla neocorteccia come area principale delle modificazioni cerebrali evolutive tra primati umani e non umani. 

Il Prof. Emiliano Bruner, biologo e antropologo, e responsabile di ricerca del gruppo di Paleoneurobiologia del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, sta studiando soprattutto le aree parietali e il precuneo (una parte del cervello situata nel lobulo parietale superiore). Il precuneo è coinvolto in processi cognitivi complessi come l’elaborazione visuo-spaziale, l’autocoscienza, e aspetti dell’immaginazione e simulazione. La paleoneurologia è la branca della paleontologia che studia il cervello e altre parti del sistema nervoso centrale di specie animali estinte. Poiché questi organi molli si degradano dopo la morte dell’animale, possono essere studiati indirettamente solo mediante le ossa della scatola cranica, la cui funzione è quella di contenere e proteggere il cervello. Lo spazio interno della scatola cranica, chiamato cavità cranica, è quindi un indicatore relativamente accurato della forma e delle dimensioni cerebrali, mentre le pareti interne della scatola cranica forniscono informazioni sulla superficie del cervello. Se confrontiamo Homo sapiens e Homo neanderthalensis, a parità di volume, notiamo delle differenze di espansione proprio nelle aree parietali. Gli esseri umani moderni si caratterizzano per una maggiore espansione dei lobi parietali, cosa che ha fatto ipotizzare che le nostre capacità visuospaziali avanzate siano dovute proprio a questo aspetto.  

Jane Goodall stupì il mondo osservando che gli scimpanzé sono capaci di modificare uno strumento e manipolare utensili. A quel tempo, si riteneva che fossero una prerogativa dell’uomo. Sebbene tutti i primati e altri mammiferi abbiano il pollice opponibile, solo gli scimpanzé hanno questa capacità, oltre all’uomo. Nel corso dell’evoluzione la manipolazione e costruzione di utensili è diventata più fine coinvolgendo la corteccia somatosensoriale, la propriocezione, la coordinazione visuo-spaziale. Ciò è collegato poi allo sviluppo del linguaggio, dal momento che vi sono circuiti neuronali comuni. L’archeologia cognitiva indaga anche la manipolazione di oggetti in relazione allo sviluppo del linguaggio? 

Questa possibilità c’è sempre stata. L’archeologia cognitiva inizialmente ha investigato il linguaggio in relazione alla cultura materiale e al simbolismo. Non mi sbilancio su questo argomento, però ci sono diverse teorie sulla relazione tra l’uso di oggetti e sviluppo del linguaggio. Sulla base degli studi di anatomia comparata e di ecologia, bisogna considerare due aspetti: gli scimpanzé modificano e utilizzano gli strumenti, ma anche alcuni tipi di uccelli utilizzano strumenti. Un lavoro interessante di John J. Shea del 2017 propone che gli esseri umani siano stati utenti occasionali di strumenti prima di 1,7 milioni di anni (un po’ come alcune delle attuali scimmie), utenti abituali tra 1,7 e 0,3 milioni di anni e utenti “obbligati” di strumenti negli ultimi 300.000 anni. In linea di massima, siamo l’unica specie con una dipendenza così diretta dagli strumenti. Sempre secondo questa ipotesi, potrebbe essere proprio il linguaggio a spiegare la variabilità degli oggetti e della complessità tecnologica negli umani moderni e Neanderthal. 

Come ha affermato Emiliano Bruner:
“Se confrontiamo la nostra specie con altri ominidi estinti o con le scimmie antropomorfe attuali, soprattutto a livello cerebrale e cognitivo, scopriamo una lunga lista di caratteri che ci rendono speciali. Il punto è che, semplicemente, anche le altre specie lo sono, ognuna a modo suo. Negare la nostra particolarità vuol dire non riconoscere nemmeno le differenze altrui, negando a uno scimpanzé o a un Neandertaliano il valore della loro indipendenza evolutiva. Soprattutto, le nostre caratteristiche uniche non ci servono solo per capire che cos’è che ci rende umani, ma anche e in primo luogo per comprendere qualcosa di molto più decisivo: che cos’è che ci rende primati 

 
Riferimenti:

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Fedato, A. P., Silva-Gago, M., Terradillos-Bernal, M., Alonso- Alcalde, R., Martín-Guerra, E., & Bruner, E. (2019b). Hand morphometrics, electrodermal activity, and stone tools haptic perception. American Journal of Human Biology, 32(3), 1–12. https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/ajhb.23370

Bruner, E., Fedato, A., Silva-Gago, M., Alonso-Alcalde, R., Terradillos-Bernal, M., Fernández-Durantes, M. Á., & Martín-Guerra, E. (2018). Visuospatial Integration and Hand-Tool Interaction in Cognitive Archaeology. Processes of Visuospatial Attention and Working Memory. Springer. https://link.springer.com/chapter/10.1007/7854_2018_71 
Silva-Gago, M., Fedato, A., Terradillos-Bernal, M., Alonso-Alcalde, R., Martín-Guerra, E., &

Bruner, E. (2022). Not a matter of shape: The influence of tool characteristics on electrodermal activity in response to haptic exploration of Lower Palaeolithic tools. Am. J. Hum. Biol., 34(2), e23612. https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/ajhb.23612 

Bruner, E., Fedato, A., Silva-Gago, M., Alonso-Alcalde, R., Terradillos-Bernal, M., Fernández-Durantes, M. Á., & Martín-Guerra, E. (2018). Cognitive archeology, body cognition, and hand–tool interaction. Progress in Brain Research. Elsevier.
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S007961231830058X