Breve cronistoria dei Neanderthal in Italia

I Neanderthal italiani occupano un posto importante nella paleoantropologia europea: la recente scoperta di nove individui avvenuta nei pressi del Circeo è solo l’ultima di una lunga storia, iniziata novant’anni fa

È del maggio scorso l’annuncio del ritrovamento, a Grotta Guattari nei pressi del Circeo (Provincia di Latina, Lazio), di reperti fossili attribuibili a nove individui di Homo neanderthalensis. I reperti avrebbero un’età compresa tra i 100.000 e i 50.000 anni, e costituiscono l’ultimo ma non definitivo tassello da aggiungere alla storia dei Neanderthal italiani. Lo scavo, coordinato dalla soprintendenza di Latina e Frosinone in collaborazione con l’Università di Torvergata, ha impegnato dall’ottobre 2020 un team inter-disciplinare di specialisti, in un sito noto ai paleoantropologi da più di novant’anni.

Prima di ripercorrere insieme la storia dei Neanderthal nostrani, volgiamo lo sguardo per un attimo alla prima metà dell’Ottocento. È infatti nel 1829 (Belgio) e nel 1848 (Gibilterra) che vengono rinvenuti i primi fossili neanderthaliani, riconosciuti come appartenenti ad una specie umana estinta solo molti decenni più tardi. L’olotipo della specie, invece, fu descritto nel 1864 dal geologo William King (1809-1886). Il reperto, rinvenuto nel 1856 da una squadra di minatori nella Valle di Neander, Germania, fu inizialmente creduto il cranio di un soldato cosacco delle guerre napoleoniche. Più tardi, eminenti studiosi sostennero la tesi dell’appartenenza a un individuo affetto da patologie. Fu nel 1864 che King lo assegnò alla specie Homo neanderthalensis (Manzi 2008). Thomas Henry Huxley (1825-1895), in Evidence as to man’s place in nature (1863), si sofferma diffusamente sulla scoperta mentre Charles Darwin (1809-1882), in The descent of man and selection in relation to sex (1871), ne accenna solo di sfuggita (vol 1; p. 146). Poi, a partire dal 1908, ulteriori descrizioni dei reperti neanderthaliani di La-Chapelle-aux-Saints, ad opera di Marcellin Boule, contribuirono a stigmatizzare i Neanderthal come una specie dai tratti scimmieschi e poco intelligente. Nonostante le ricerche successive abbiano completamente sgretolato una tale visione, nell’immaginario collettivo Homo neandethalensis continua ad essere descritto in maniera fuorviante, associato ad un’idea di evoluzione lineare e progressiva. Cosa sappiamo oggi dei Neanderthal, e qual è il posto dei reperti italiani nella comprensione di questa specie?

Torniamo nell’Italia di novant’anni fa, nel 1929 più precisamente. Ci troviamo in una zona della periferia di Roma, Saccopastore, dov’era situata una cava di ghiaia. È qui che venne rinvenuto un primo cranio fossile (Saccopastore 1), subito oggetto dell’attenzione di Sergio Sergi (1878-1972), antropologo e figlio di Giuseppe Sergi (1841-1936), anch’egli antropologo. Nel 1935, poi, l’archeologo Henri Breuil (1877-1961) e il collega Alberto Carlo Blanc (1906-1960) rinvennero un secondo cranio (Saccopastore 2), in un’area non distante dal primo. In un articolo originariamente pubblicato in tedesco, e successivamente tradotto in inglese (Sergi 2013[1958]), Sergi discusse la morfologia caratteristica dei reperti assegnandoli alla famiglia dei Paleantropi, che avrebbero preceduto di molto la comparsa dell’uomo moderno, i cosiddetti ‘Fanerantropi’. I reperti, in associazione a una ricca paleofauna e tecnologia musteriana, furono datati a circa 130.000 anni fa da Aldo Segre (1918-2018), anche se nuovi studi suggeriscono un’età di circa 250.000 anni (Marra et al. 2015). I due crani, appartenenti ad un individuo femminile e uno maschile, costituiscono un punto di riferimento per la paleontropologia italiana, data la loro completezza e morfologia peculiare, un mosaico di tratti arcaici e derivati. I reperti, infatti, sono stati collocati in una fase di transizione tra Homo heidelbergensis e Homo neanderthalsis (Manzi 2004).

Spostiamoci ora al Circeo, nei pressi di Grotta Guattari. Qui, nel 1939, è stato rinvenuto un cranio (Guattari 1) pressoché intatto, in associazione a due mandibole e tecnologia di tipo musteriano (nei livelli inferiori). La morfologia dei reperti sembra ormai rientrare in quelli che sono stati denominati Neanderthal classici, con un’età che si aggira tra i 60.000 e i 50.000 anni. Blanc aveva interpretato le lesioni sul cranio Guattari 1 come dovuti ad episodi di cannibalismo rituale. Solo molti anni dopo è stato possibile abbandonare questa suggestiva ipotesi. La grotta servì probabilmente da rifugio a gruppi di iena maculata e le lesioni sulle ossa frantumate rinvenute nella grotta non sono compatibili con attività umane.

Nel 1993, nei pressi di Altamura – in Puglia- viene fatta un’altra, eccezionale scoperta. Si tratta dello scheletro completo di un Neanderthal, interamente imprigionato in concrezioni carsiche. Con un’età che si aggira tra i 187.000 e i 128.000 anni, il reperto è stato analizzato attraverso tecniche di scannerizzazione, dati i costi elevati che comporterebbe la rimozione dell’individuo dalla matrice rocciosa. Recentemente, grazie ad una stretta collaborazione fra gli archeologi delle università di Bari e di Roma, si è registrata una nuova sensibilità verso l’uomo di Altamura. È stato infatti possibile prelevare una piccola porzione di scapola ed analizzare il DNA dello scheletro (Di Vincenzo et al. 2019). Ancora, nuove ricerche hanno permesso di creare un calco 3D del cranio, e un modello iperrealistico dell’intero individuo, un maschio, è stato realizzato ad opera dei paleoartisti Adrie e Alfons Kennis (Manzi 2017).

Ed eccoci a poche settimane fa, quando è stata data notizia del rinvenimento dei reperti attribuibili nove individui del Circeo. In attesa di studi ufficiali, dobbiamo esercitare ancora molta cautela. Quale ruolo occupano nella paleoantropologia italiana?

È presto per dirlo. È altrettanto certo, però, che la storia dei Neanderthal si è rivelata molto più complessa di quanto pensassimo pochi decenni fa. I nostri ‘cugini’, prima di estinguersi definitivamente circa 40.000 anni fa, hanno condiviso per 2.500-5.000 anni nicchie ecologiche con la nostra specie. In un quadro sempre più complesso i reperti italiani, per variabilità morfologica, antichità e stato di conservazione, costituiscono un’importante finestra sulla paleoantropologia europea.

Riferimenti:

Darwin, C. (1871[2009]), The descent of man and selection in relation to sex, CUP, 2 voll.

Di Vincenzo, F., Churchill, S.E., Buzi, C., Profico, A., Tafuri, M.A., Micheli, M., Caramelli, D. e Manzi, G. (2019), Distinct among neanderthals: The scapula of the skeleton from Altamura, Italy, Quaternary Science reviews, 217: 76-88

Huxley, T.H. (1863[2009]), Evidence as to man’s place in nature. CUP, pp. 160

Manzi, G. (2004), Italian prehistoric promenades: the human fossil sample from the earliest European to the latest Neandertals, Zona arqueòlogica, 4(3): 220-231

Manzi, G. (2008), L’enigma della fine dei Neandertal, Darwin, pp. 14-17

Manzi, G. (2017), Ultime notizie sull’evoluzione umana, Il Mulino, pp. 242

Marra, F., Ceruleo, P., Jicha, B., Pandolfi, L., Petronio, C. e Salari, L. (2015), A new age within MIS 7 for the Homo neanderthalensis of Saccopastore in the glacio-eustatically forced sedimentary successions of the Aniene River Valley, Rome, Quaternary Science Reviews, 129: 260-274

Sergi, S. (2013), The Neanderthal Paleantropi in Italy, in Ideas on Human evolution, De Gruyter, pp. 500-506

Immagine: Ministero della cultura