C’è posto per Aristotele nella biologia moderna?

Aristotele Platone

Recenti sviluppi in filosofia hanno coniugato l’interesse per le scienze biologiche con questioni metafisiche: c’è ancora un ruolo per l’essenzialismo, dopo Darwin?

Negli ultimi decenni la filosofia analitica, di area anglosassone, ha sviluppato interessanti integrazioni tra le scienze ‘dure’ (mi si passi la semplificazione) e la metafisica. Discipline come la fisica fondamentale e la chimica sono state sottoposte a vere e proprie investigazioni filosofiche, concernenti il metodo o la natura di singoli concetti come atomo, molecola, legame chimico ed altri ancora. Proprio di questo si occupa il MetaScience Project coordinato da un gruppo di ricercatori, presieduto da Tuomas Tahko, presso l’Università di Bristol.

C’è una precisa ragione per la supremazia delle scienze fisiche e chimiche nella storia della filosofia della scienza: il grande potere predittivo della fisica Newtoniana venne alla luce quando lo sviluppo delle scienze biologiche era ancora in embrione.

Un mutamento radicale
Con Darwin, tuttavia, lo statuto epistemico della biologia conobbe radicali mutamenti. Alla metafisica essenzialista sino ad allora dominante venne inferto un colpo mortale. La gran parte delle teorie evoluzionistiche pre-darwiniane, infatti, non riuscivano a spiegare la diversità del mondo naturale, se non grazie a una logica creazionista. La variabilità delle specie viventi era limitata dall’appartenenza a delle essenze o tipi (generi naturali). Si era consapevoli che, soprattutto a causa dell’uomo, gli individui di una specie potessero esibire un certo grado di variabilità interna, ma tale processo non avrebbe potuto spingersi oltre, pena la dissoluzione dell’individualità. L’etologo Richard Dawkins ha chiarito questo concetto parlando di morfospazio, uno spazio di variabilità fenotipica la cui espressione è condizionata dalle coordinate genotipiche (Dawkins, 2016). In breve: Homo sapiens non può volare perché il suo DNA non consente l’espressione di ali funzionali al volo.

Essenzialismo e biologia moderna

Si tratta di un apparato concettuale, questo, ereditato dalla metafisica di platone e di aristotele, e che solo con l’evoluzionismo darwiniano fu ridimensionato.

Ridimensionato, sì, poiché alcuni studiosi hanno recentemente elaborato versioni di un essenzialismo storico di matrice aristotelica, alla luce della biologia contemporanea. Due le posizioni principali, che possono distinguersi entro il dibattito: una internalista, l’altra esternalista, a seconda che si considerino come principi fondanti o elementi come il materiale genetico (internalismo) o caratteristiche fenotipiche (esternalismo)

Facciamo qualche esempio.
Nel primo caso, le essenze al livello di una specie verrebbero a definirsi attraverso l’individuazione di quelle particolari sequenze geniche, in gran parte regolatrici, che si mantengono costantemente associate in entità biologiche, nello spazio e nel tempo. Denominate da Austin (2018) come phenomodulatory clusters, queste sequenze andrebbero a costituire l’essenza interna di un entità biologica, che potrebbe dunque essere definita nella sua costituzione oggettiva. Austin tenta in questo modo di far evolvere il vecchio essenzialismo alla luce della biologia dello sviluppo e del programma di ricerca darwiniano, per fornire un’aggiornata teoria metafisica. Secondo Austin, tre devono essere le condizioni da soddisfare, perché una serie di tratti possa essere definita essenziale: (1) tale serie deve comprendere un insieme di proprietà naturali che (2) siano a fondamento di meccanismi genici (cfr. i geni homeobox), a loro volta (3) condivisi da un gruppo di organismi, i quali vengono così caratterizzati come appartenenti allo stesso genere naturale.

Nel secondo caso, invece, sarebbe una determinata serie di caratteristiche morfologiche a definire la specie d’interesse, un po’ come la moderna tassonomia fenetica. Un recente studio (Kortabarria, 2020), ha applicato tale visione ai taxa superiori, attraverso la teoria degli homeostatic property clusters sviluppata da Brigandt (2009). Secondo tale approccio, la costante associazione nel tempo di proprietà fenotipiche (property clusters) al livello di generi e famiglie, permetterebbe di affermare con una certa sicurezza l’esistenza di generi naturali, di categorie oggettive non solamente frutto delle convenzioni scientifiche.

Okasha (2002) ha mostrato come entrambe le posizioni soffrano di difficoltà concettuali derivanti dall’applicazione di una teoria, quella essenzialista, principalmente sviluppata per descrivere il mondo fisico e solo più tardi trasposta alla biologia evoluzionistica.

Al fondo di questi dibattiti è situata la questione se sia possibile identificare dei generi naturali, oggettivi, che vadano oltre il loro semplice impiego ‘soggettivo’ di un apparato categoriale umano. Ad esempio, il concetto di ‘tigre’ corrisponde davvero ad un’entità esistente nella realtà, con determinate caratteristiche, o è solo uno strumento atto a fare ordine nella complessità naturale?

Una visione oggettiva della realtà

Rispondere a queste domande può sembrare facile. Si può pensare che sia più semplice con riferimento agli enti fisici e chimici, anche se l’ontologia di queste discipline si è rivelata molto più complessa e fluida di quanto credessimo. E si rivela essere ancor più complicato per gli enti biologici, la cui evoluzione rende pressoché impossibile definire delle entità individuali più o meno stabili; o, perlomeno, lo si potrebbe fare con un occhio alla complessità dei processi biologici e alla relatività della scala spazio-temporale.

Se, ad esempio, definire dei generi naturali al livello di taxa estinti può risultare un compito per certi aspetti infruttuoso – dato l’alto grado di convenzionalità delle classificazioni attuali, esso potrebbe tornare utile nell’ambito delle specie viventi. Ad esempio, nelle scienze mediche, la definizione di alcuni generi naturali potrebbe servire ad una più precisa definizione delle caratteristiche di un organismo (un agente patogeno) e a ‘fissare’ quei caratteri utili responsabili di determinate patologie. In biologia evoluzionistica, questo rinnovato essenzialismo aristotelico può dunque inserirsi nelle questioni tra realismo e convenzionalismo in tassonomia, anche se ha una portata più ampia (si veda Casetta, 2009).

Essere in grado di determinare con più chiarezza le giunture in cui si articola il mondo naturale è esigenza profonda dell’uomo che, una volta soddisfatta, può condurre ad agire i maniera significativa sulla natura stessa.

È forse troppo presto esprimere un giudizio su quest’area della filosofia, che necessita di ulteriori sviluppi e di una maggiore consapevolezza delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Non si può però non constatare quanto un approccio filosofico allo studio del mondo naturale si renda necessario a far luce sulle categorie concettuali impiegate dalla scienza, che non sempre hanno un corrispettivo nella realtà esterna, e il cui abuso (si pensi solo al termine ‘razza’) può avere numerose conseguenze etico-sociali.

Riferimenti:

Austin, C.J. (2018), Aristotelian essentialism: essence in the age of evolution, Synthese, 194: 2539-2556
Brigandt, I. (2009), Natural kinds in evolution and systematics: metaphysical and epistemological considerations, Acta biotheoretica, 57(1-2): 77-97
Casetta, E. (2009), La sfida delle chimere: realismo, pluralismo e convenzionalismo in filosofia della biologia, Milano-Udine: Mimesis edizioni
Dawkins, R. (2016), The blind watchmaker, UK: Penguin books
Kortabarria, M. (unpublished), Kinds and essences: rescuing the new biological essentialism, Tesi Magistrale, Università di Barcellona, disponibile su PhilArchive: https://philarchive.org/archive/KORKAE
Okasha, S. (2002), Darwinian metaphysics: species and the question of essentialism, Synthese, 131(2): 191-213