C’era una volta un antico virus…

La capacità di cooptare, per esprimersi nell’utero, geni evolutisi originariamente in altri tessuti, mediata da elementi mobili del genoma detti trasposoni, aiuta a comprendere l’evoluzione della gravidanza nei mammiferi; oltre a fornire un’efficace risposta all’argomento della complessità irriducibile, spesso adotto dagli antievoluzionisti

Prendiamo l’ovidotto di un antico rettile oviparo. Ipotizziamo che per caso una o più mutazioni eliminino i depositi di sali minerali dal guscio delle uova, trasformandolo in una membrana morbida e permeabile; ipotizziamo che per caso un’altra mutazione renda i connettivi dell’ovidotto spessi e vascolarizzati; poi, sempre per caso, un’altra mutazione ancora faccia sviluppare in questo connettivo delle ghiandole in grado di secernere ricchi secreti nutritivi per l’uovo in sviluppo; infine immaginiamo, per un altro ulteriore caso, che dalle membrane dell’uovo si sviluppino delle protrusioni vascolarizzate in grado di pescare nutrimento per l’embrione “scavando” nel connettivo dell’utero della madre. Date tutte queste circostanze casuali il nostro antico rettile avrebbe finito per sviluppare la gravidanza molto simile a quella tipica di un mammifero.

Qualche antievoluzionista potrebbe obiettare che questa ricostruzione presenta troppi “se” e “forse”: la gravidanza dei mammiferi, e tra di essi in particolare quella umana, è un concerto di cellule, geni, ormoni e sistema immunitario troppo attentamente diretta per essere frutto di un caso. La transizione dalle uova di rettile alla placenta richiederebbe quindi una lunga serie di eventi casuali molto improbabili, anche se la probabilità aumenta se si considerano i lunghi tempi geologici necessari per l’evoluzione di un adattamento così complesso. Questa argomentazione è stata adoperata a lungo per un organo complesso come l’occhio, almeno fino a quanto la documentazione fossile (e le attuali forme di vita ‘intermedie’) non ha mostrato l’esistenza di tutte le forme intermedie, a partire da semplici cellule fotosensibili, per questo organo. È probabile quindi che l’argomentazione sarebbe stata prima o poi utilizzata anche per l’utero, se non fosse che già al tempo di Darwin erano noti gli strani mammiferi dell’Australia: i mammiferi della sottoclasse Prototheria (che comprende gli attuali monotremi: l’ornitorinco e gli echidna) depongono uova. L’infraclasse Metatheria (quella dei marsupiali) è del tutto priva di placenta, o al massimo ne presenta degli abbozzi, e partorisce piccoli altamente immaturi che completano lo sviluppo nel marsupio della madre.

Se monotremi e marsupiali rappresentano la testimonianza vivente che l’evoluzione della gravidanza dei mammiferi è avvenuta così come era stata immaginata, a partire dall’ovidotto dei rettili, resta il fatto che questo percorso rimane estremamente improbabile se lo immaginiamo come conseguenza del meccanismo classico, basato su mutazione e selezione di singoli geni, ipotizzato come base biochimica per l’evoluzione. I nostri antichi antenati rettili, da cui si sono poi differenziati i mammiferi, sono stati solo incredibilmente fortunati? Oppure qualche meccanismo poco chiaro ha dato una mano alla loro fortuna? Se lo sono domandato V. J. Lynch, dell’università di Chicago, e gli altri autori di un’ampia collaborazione fra università statunitensi, europee e australiane, che hanno pubblicato le loro conclusioni in un articolo sulla rivista Cell, riprendendo in parte un loro precedente lavoro del 2011, inviato in forma di lettera a Nature Genetics.

Solo fortuna?
I ricercatori hanno esaminato i geni espressi nel tessuto uterino di cinque mammiferi euteri: cane, mucca, cavallo, maiale e armadillo; di un monotremo: l’ornitorinco; e di un marsupiale: un opossum. Questa base dati è stata ulteriormente arricchita dall’elenco dei geni espressi nell’utero oppure nell’ovidotto di varie altre specie già presenti in letteratura, come rane, lucertole, galline e, fra i mammiferi, topo, scimmia rhesus ed esseri umani. Sulla base di questi geni attualmente attivi e del più probabile albero filogenetico che lega le specie esaminate a un antenato comune, gli autori della ricerca hanno individuato i punti di diramazione evolutiva in cui i particolari geni hanno iniziato ad essere espressi (o hanno smesso di esserlo) a livello del tessuto dell’utero.

Reclutati a centinaia
Durante la trasformazione dell’ovidotto in utero molti geni sono stati inattivati: si tratta soprattutto di geni relativi al trasporto di ioni, implicati nella deposizione della matrice mineralizzata del guscio; oppure di geni legati alla funzione del sistema immunitario, la cui inattivazione ha permesso alla madre di sviluppare tolleranza nei confronti dei tessuti fetali geneticamente estranei.Molti più geni, inizialmente non presenti, hanno cominciato tuttavia ad essere espressi nei tessuti uterini nel percorso che ha portato ai moderni mammiferi. Lynch e colleghi hanno potuto stabilire che molti di essi erano già presenti nel genoma degli antenati rettili dei mammiferi, ma erano attivi in tessuti differenti rispetto all’ovidotto. La comparsa delle caratteristiche così complicate e regolate del tessuto uterino non sono perciò frutto di mutazione e selezione, ma della cooptazione a livello dell’utero di geni già espressi altrove.

Mille piccioni con una fava
Gli autori hanno potuto stabilire sperimentalmente come molti dei geni comparsi nell’utero dell’Infraclasse Eutheria (i mammiferi placentati) si esprimano a seguito dell’esposizione delle colture cellulari a ormoni sessuali, soprattutto il progesterone. Fra questi geni, particolarmente importante è quello per la produzione di prolattina: la produzione di prolattina come conseguenza all’esposizione al progesterone, mediata dall’aumento intracellulare di AMP ciclico, è infatti nei placentati il segno distintivo delle cellule stromali endometriali (le principali componenti della decidua, lo strato cellulare ipertrofico che si forma nell’utero per accogliere l’embrione). Esaminando i tratti di DNA adiacenti al gene della prolattina gli autori delle ricerche hanno trovato un elemento regolatorio sensibile al percorso Progesterone/AMP ciclico. Un transgene fluorescente costruito sperimentalmente dagli autori per esprimersi sotto il controllo di questo elemento regolatorio, ed inserito in cellule di vari tessuti, ha prodotto fluorescenza solo nelle cellule stromali endoteliali esposte a progesterone, dimostrando che il percorso progesterone/AMP ciclico è specifico di queste cellule. Non è sorprendente scoprire che la maggior parte dei geni che hanno iniziato a esprimersi nell’utero con il passaggio agli euteri è sotto il controllo dello stesso elemento di regolazione del gene per la prolattina. Il tessuto dell’utero ha cooptato le migliaia di nuovi geni che ha iniziato a esprimere con la sua evoluzione semplicemente portandoli sotto il controllo di un unico elemento regolatorio specifico per le sue cellule. I responsabili più probabili per questo reclutamento di massa sono i trasposoni.

Saltare in orizzontale
I trasposoni sono tratti di DNA presenti in vari organismi animali e vegetali, probabili resti di antichi virus, che hanno perso la capacità di trasferirsi da una cellula all’altra, ma sono ancora capaci di auto copiarsi e spostarsi da una posizione all’altra del genoma di una stessa cellula. Capita spesso che nel corso delle loro duplicazioni e dei loro spostamenti i trasposoni si portino dietro tratti di DNA adiacenti, duplicando o spostando tanto geni quanto tratti regolatori appartenenti ai loro ospiti.
Lynch e i suoi collaboratori si sono chiesti se anche l’elemento regolatorio per progesterone/Amp ciclico fosse stato trasferito in seguito all’azione di trasposoni nel corso dell’evoluzione dei tessuti dell’utero nei placentati. Gli esperimenti condotti hanno facilmente dimostrato che in prossimità del tratto di regolazione del DNA sono in effetti spesso presenti le sequenze tipiche di alcuni trasposoni. Il 13% dei nuovi geni espressi nell’utero dei placentati, in particolare, mostra le tracce di un particolare trasposone chiamato MER20, presente in prossimità dell’elemento di regolazione per progesterone/AMP ciclico. Questo trasposone è presente solo negli euteri e si ritiene sia stato ereditato dall’aumento comune a questo gruppo tassonomico.

Meccanismi complessi
Il reclutamento di geni evolutisi in altri tessuti tramite “salti orizzontali” smonta efficacemente l’argomento della complessità irriducibile. Ma costringe anche a rivedere l’origine della complessità genetica su cui agisce la selezione naturale: la mutazione casuale di un gene raramente porterà risultati utili per l’organismo che ne è portatore, mentre il “cambio di mansione” di un gene che ha già subito un lungo processo di selezione porterà raramente conseguenze deleterie e più spesso novità utili e interessanti. Se una struttura che vediamo nel mondo vivente sembra apparentemente troppo complicata per essersi evoluta, questo non inficia in alcun modo la teoria dell’evoluzione. Prova solo che non abbiamo ancora capito come essa è avvenuta.

 

 

Riferimenti:
Lynch et al. Ancient Transposable Elements Transformed the Uterine Regulatory Landscape and Transcriptome during the Evolution of Mammalian Pregnancy. Cell Reports (2015), http://dx.doi.org/10.1016/j.celrep.2014.12.052

Lynch VJ, Leclerc RD, May G, Wagner GP. Transposon-mediated rewiring of gene regulatory networks contributed to the evolution of pregnancy in mammals. Nat Genet. 2011 Sep 25;43(11):1154-9. doi: 10.1038/ng.917. PubMed PMID: 21946353.