Chi non ha cervello abbia occhi

Uno studio comparativo mette in relazione le strategie antipredatorie di numerose specie di uccelli alle dimensioni di occhi e cervello

Gli uccelli oggetto di predazione fuggono in volo quando un possibile predatore si avvicina oltre una distanza minima tollerata. Ma il valore medio di questa distanza varia da specie a specie, rappresentando per ciascuna un compromesso fra esigenze contrapposte. Fuggire in volo il prima possibile può sembrare la migliore strategia di sopravvivenza, una volta avvistato un predatore che si avvicina dal cielo o da terra. Ma farlo troppo presto può portare anche degli svantaggi: come l’elevato costo energetico del volo o la perdita di cibo dovuta all’abbandono di un’area ricca di risorse. 
Si può ipotizzare quindi che, nel continuo gioco di coevoluzione tra preda e predatore, ogni specie predata ottimizzerà la sua distanza di tolleranza dal predatore in funzione delle sue peculiari caratteristiche. Un comportamento di fuga precoce dovrebbe risultare più vantaggioso in quelle specie che hanno evoluto organi di senso molto sviluppati, in grado di individuare il predatore con largo anticipo. Una distanza di tolleranza lunga dovrebbe invece essere la strategia scelta da specie con un cervelletto sviluppato, in grado di coordinare le informazioni sensoriali e motorie in una azione di fuga messa in atto in maniera automatica. D’altra parte, una fuga ritardata dovrebbe risultare più utile nelle specie che hanno evoluto un cervello di grandi dimensioni e buone capacità cognitive, capaci di valutare se quello individuato è veramente un predatore e se dimostra intenzioni aggressive. 
La validità generale di queste ipotesi è stata esaminata in un lavoro di A. P. Møller, dell’Università di Parigi Sud, e J. Erritzøe, del Centro di Ricerca Ornitologica di Christiansfeld in Danimarca; i cui risultati sono stati esposti in un articolo pubblicato sul Journal of Evolutionary Biology. I ricercatori hanno infatti valutato la distanza minima di fuga tollerata in funzione del volume degli occhi, del peso dell’intero encefalo e di quello di alcune sue parti in ben 107 specie di uccelli. Tutti i dati oggetto di analisi sono stati divisi per il peso totale del corpo, trasformandoli in valori relativi.
Møller e Erritzøe si sono serviti, nella loro raccolta di dati, anche della collaborazione di numerosi appassionati di Birdwatching, grazie ai quali hanno potuto valutare alcune possibili variabili di disturbo nella loro analisi come per esempio: habitat tipico, socialità e rischio relativo di predazione, da parte di rapaci, per le specie esaminate. L’analisi statistica sui dati raccolti ha sostanzialmente confermato le ipotesi degli autori: tanto più occhi e cervelletto sono sviluppati, in relazione alle dimensioni corporee, tanto meno la specie permette ai predatori di avvicinarsi prima di fuggire (distanza tollerata lunga). L’effetto opposto è prodotto dalle dimensioni dell’encefalo: tanto più questo è grande tanto più la specie attende prima di fuggire (distanza tollerata breve). 
Con l’eccezione di quanto accade per il cervelletto tuttavia, lo studio non ha dimostrato differenze significative tra gli effetti prodotti dalle dimensioni dalle singole parti dell’encefalo, rispetto a quelli prodotti dalle sue dimensioni totali.
Le pressioni selettive, cui sono sottoposte le specie, finiscono per influenzarne il comportamento oltre che i tratti fisici. Per sopravvivere, avere un cervello grande e comportamenti complessi può essere una soluzione. Ma non l’unica, ne tanto meno la conclusione inevitabile di un percorso prestabilito.
Daniele Paulis
Riferimenti:
A. P. Møller, J. Erritzøe. Predator–prey interactions, flight initiation distance and brain size. Journal of Evolutionary Biology. Volume 27, Issue 1, pages 34–42, January 2014
Immagine da Wikimedia Commons