Confini aperti – quarta puntata

Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011).  Qui invece la prima puntata del racconto, qui la seconda e qui la terza. La capacità del programma di ricerca evoluzionista di attraversare i confini disciplinari – là dove sono permeabili – è quanto mai vivace. Lo testimonia la seconda giornata

Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011).  Qui invece la prima puntata del racconto, qui la seconda e qui la terza.

La capacità del programma di ricerca evoluzionista di attraversare i confini disciplinari – là dove sono permeabili – è quanto mai vivace. Lo testimonia la seconda giornata di Confini Aperti, con due talk tra psicologia e neuroscienze cognitive e un terzo che potremmo solo classificare – benevolmente, s’intende – come borderline, linea di confine che chiude gloriosamente l’intero convegno, richiamandone il basso continuo dell'(anti)riduzionismo genetico.

La dissoluzione delle dicotomie coinvolge anche le scienze cognitive, classicamente impostate sulla coppia oppositiva corpo/mente, matrice della separazione corpo/cervello, strutture/funzioni, natura/cultura, innato/appreso. L’antica opposizione tra soggetto conoscitivo e oggetto della conoscenza viene revisionata dalle scienze cognitive post-classiche (dagli anni ’80) fino a reintegrare il cervello nello studio del corpo. Anche la conoscenza è fatta di corpo, è di un organismo che è ambiente legato a un ambiente: da qui, dagli anni ’90 spiega Carmela Morabito, si consolida l’idea che i neuroni non sono indipendenti da un organismo integrato. Il rapporto fra corpo e cervello, osservato dalle prospettive temporali dell’evoluzione e dello sviluppo, è una costruzione reciproca di strutture e funzioni: è l’esperienza ontogenetica, a partire dallo sviluppo embrionale, a plasmare quelle stesse strutture cerebrali che consentono all’organismo di conoscere l’ambiente (vedi darwinismo neurale di G. Edelman). La plasticità epigenetica seleziona dunque le condizioni di possibilità cerebrali dell’esperienza individuale. Il cervello acquista così un carattere dinamico, storico e irreversibile, in una parola: biologico. L’idea che il mentale possa essere geneticamente determinato, o almeno predisposto (prewired, “precablato”), va corretta come la dicotomia innato/appreso, dal momento in cui diventa chiaro che l’evoluzione non ci dota di istruzioni o ricette preconfezionate prima della nascita, ma piuttosto di ingredienti «q.b.», quanto bastano per influire sull’espressione dei geni, i quali offrono più opzioni regolate dall’ambiente interno ed esterno. Se la flessibilità è compresa nei meccanismi genetici, l’appreso non è in antitesi con l’innato poiché quest’ultimo non è più internamente statico, definitivamente ereditario (l’autismo e la schizofrenia sembrano associati, precisa Buiatti, a mutazioni nel DNA derivate da condizioni di disagio del feto nel periodo di differenziazione del cervello, che quindi non sono ereditate perché non entrano nella linea germinale). Necessario allo sviluppo cognitivo è innanzitutto il movimento del corpo nell’ambiente: tale concetto era caro ai sovietici legati alla scuola storico-culturale di Vygotskij e Lurija e quindi alla concezione della natura umana di Marx. Il nostro cervello prende forma a seconda di come funziona, di come viene utilizzato nella nostra esperienza: questa è, ad esempio, la risposta che Stanislas Dehaene dà alla domanda “perché abbiamo i neuroni della lettura?”.

A questo punto le neuroscienze cognitive possono tentare di spiegare come conosciamo il mondo esterno e come interagiamo con gli altri. Leonardo Fogassi ci presenta il nostro “vocabolario motorio”, un magazzino di atti motori finalizzati che iniziamo ad accumulare quando ancora siamo nell’utero. Intorno alle 22 settimane, infatti, i movimenti del feto assomigliano a quelli finalizzati che compie un adulto. Il nostro primo modo di conoscere il mondo è dunque motorio: ci muoviamo nello spazio prima ancora che il sistema visivo completi il suo sviluppo e, anche quando non ci muoviamo, conosciamo il mondo esterno in modo pragmatico, immaginando i movimenti che dovremmo fare per raggiungere un oggetto. L’attivazione dei neuroni bimodali (che rispondono a stimolazioni tattili e visive) quando un oggetto entra nel nostro campo di raggiungimento va interpretata, non tanto come una risposta visiva, quanto come atti motori potenziali, per esempio della possibilità di raggiungere quell’oggetto. Si tratta di una prima costruzione dello spazio non mediata da inferenze e riflessioni, interamente a carico del sistema motorio. Vedere qualcosa che non sappiamo fare, come abbaiare, non attiva i neuroni motori, ma solo le aree visive, a differenza della vista di un uomo che muove le labbra per parlare, la quale attiva in piccola parte l’area di Broca. La comprensione automatica delle intenzioni motorie modula l’attivazione dei neuroni motori durante un atto finalizzato, appartenente a una determinata azione; ma l’attivazione dei neuroni specchio avviene durante l’atto di afferrare, prima che l’azione – la serie di atti motori – sia compiuta e quindi prima che lo scopo – mangiare un frutto o metterlo in un contenitore – sia raggiunto. Sembrerebbe una predizione delle intenzioni motorie altrui; l’ipotesi di Fogassi è che a partire da qui si sia evoluta la capacità di comprendere in generale, per interagire con gli altri.

(Continua…)

Irene Berra

Foto di Cristiano Corsini in licenza creative commons non commerciale.