I capodogli imparavano gli uni dagli altri a difendersi dalle antiche baleniere

I diari di bordo dei balenieri ottocenteschi fanno pensare che i capodogli si scambiassero tra loro informazioni utili per sfuggire alla caccia

I capodogli sono i carnivori viventi più grandi sul nostro pianeta. Per secoli, le storie dei marinai li hanno dipinti come creature quasi leggendarie; se i navigatori del passato sapessero ciò che sappiamo oggi, forse le storie sarebbero ancora più grandiose. Un recente studio sulle Biology Letters della Royal Society ha preso in esame vecchi dati sulle catture di questi cetacei da parte di baleniere americane nel nord Pacifico. I biologi marini Hal Whitehead e Luke Rendell e il data scientist Tim D. Smith, che hanno firmato lo studio, sono arrivati a una conclusione: i capodogli imparavano a sfuggire ai balenieri condividendo tra loro informazioni e tattiche.

Questi dati vengono da diari di bordo, recentemente digitalizzati, risalenti al diciannovesimo secolo. La fiorente industria baleniera con base nel porto di Nuntucket aveva decimato la popolazione di cetacei lungo la costa atlantica americana, e i cacciatori di balene cercavano fortuna in nuove acque, tra cui il Pacifico. I capodogli erano ricercati soprattutto per lo spermaceti, una sostanza cerosa (chimicamente, cetil palmitato) presente in una cavità all’interno delle loro teste bombate, che faceva da combustibile per i lumi usati nelle case. La funzione di questa sostanza per il capodoglio è controversa: potrebbe regolare il galleggiamento, ma sembra più probabile che serva per affinare l’ecolocazione, un senso simile al sonar dei sottomarini con cui i capodogli individuano la preda nel buio degli abissi. Tra queste prede ci sono niente meno che i calamari giganti: i loro becchi sono stati trovati nell’ambra grigia, una sostanza secreta dall’apparato digerente dei capodogli e molto ricercata. Viene usata ancora oggi per realizzare profumi.

Ma nella testa dei capodogli c’è ben più che olio combustibile. I capodogli appartengono al gruppo degli odontoceti, i cetacei provvisti di denti, insieme a delfini e orche. Che questi ultimi siano animali intelligenti è risaputo, e provato dalle capacità di pianificazione e coordinazione che dimostrano nella caccia. Per di più, sia delfini che orche sono tra le poche specie capaci di riconoscersi in uno specchio. Si tratta del cosiddetto test dello specchio sviluppato dallo psicologo Gordon Gallup, che ha lo scopo di stabilire se un animale sia dotato di consapevolezza di sé; i suoi risultati sono controversi.

È più difficile studiare l’intelligenza dei capodogli, viste le dimensioni e lo stile di vita elusivo. Sappiamo però che vivono in clan matriarcali, comandati da una femmina, con più madri che collaborano per accudire i piccoli (Pikaia ha parlato qui di simili organizzazioni nelle orche). I maschi adulti sono solitari, e si uniscono a questi gruppi solo per riprodursi. All’interno dei clan possono crearsi “amicizie” tra individui, che passano il tempo preferenzialmente insieme, e addirittura alcuni esemplari sembrano ricoprire ruoli stabili (in un clan osservato per anni a largo delle Mauritius, era quasi sempre una particolare femmina a fare da “babysitter” ai piccoli mentre le altre cacciavano). La comunicazione avviene tramite suoni detti click, di cui ogni clan ha un particolare dialetto.

Anche lo studio di Whitehead e colleghi sembra sostenere l’intelligenza dei capodogli. Nei primi anni dall’arrivo dei balenieri nel nord Pacifico, i successi nelle uccisioni calarono del 58%. Il dato, ricavato dai diari di bordo, si riferisce al successo della caccia una volta avvistati gli animali, quando i balenieri calavano in acqua le barche a remi con cui avvicinare i cetacei. Gli scienziati hanno considerato diverse possibili spiegazioni per questo calo: che i primi balenieri fossero particolarmente abili, che gli esemplari uccisi inizialmente fossero quelli più vulnerabili, che i capodogli imparassero a sfuggire per sola esperienza personale. Tuttavia, i modelli costruiti ne hanno supportata una più di tutte: che i capodogli imparassero gli uni dagli altri, così che l’esperienza di alcuni serviva da lezione a tutti i membri del gruppo. Secondo gli autori, si tratterebbe di apprendimento a livello sociale e su vasta scala (Pikaia ha parlato qui di un simile caso nei delfini).

Il cambiamento di strategia più immediato sarebbe stato di non raggrupparsi come i capodogli fanno per difendere i piccoli dalle orche, cosa che rendeva il gioco più facile ai balenieri. Gli stessi cacciatori, poi, scrivevano di nuove tattiche usate dai cetacei, come nuotare controvento per sfuggire alle navi a vela o persino attaccare le imbarcazioni. È in effetti del 1820 la vicenda della nave baleniera Essex, caricata e affondata da un grosso maschio di capodoglio al largo delle Galapagos. È possibile che il maschio avesse scambiato la nave per un rivale, e non si può stabilire se agisse per difendere sé stesso o le compagne; fatto sta che la vicenda, con il naufragio che ne conseguì, ispirò Herman Melville a scrivere un libro intitolato Moby Dick.

Gli individui non possono contare sull’evoluzione per fare fronte ad ambienti in rapido mutamento: se vogliono adattarsi, devono imparare. Saper trasmettere tali insegnamenti e comunicare le informazioni può fare la differenza; dovremmo saperlo, visto che la nostra civiltà dipende da questo. La caccia alle balene a scopo commerciale è stata bandita da una moratoria entrata in vigore nel 1986, e la popolazione dei capodogli oggi non è in immediato pericolo. Il bando ha posto fine al massacro; ma se i capodogli sono arrivati a vederlo, forse, è anche merito della loro capacità di imparare, di adattarsi, e di comunicare.

Riferimenti:
Whitehead H, Smith TD, Rendell L. 2021 Adaptation of sperm whales to open-boat whalers: rapid social learning on a large scale? Biol. Lett. 17: 20210030. https://doi.org/10.1098/rsbl.2021.0030.

Immagine
Francis Allyn Olmsted (1841). Lithograph of Endicott, N. Y., Public domain, attraverso Wikimedia Commons.