Il dibattito sulle origini di Homo sapiens: il contributo della filosofia

Omo I origini di homo sapiens

Nel campo dell’evoluzione umana, la quantità di dati a oggi disponibile è causa di un grande proliferare di interpretazioni, come per le origini di Homo sapiens. La filosofia della scienza offre un contributo rilevante alla sintesi e semplificazione di queste prospettive

Un recente studio a firma di Andra Meneganzin e Telmo Pievani, filosofi della biologia presso l’Università di Padova, e Giorgio Manzi, paleoantropologo presso l’Università Sapienza di Roma, affronta il delicato tema delle origini di Homo sapiens.

La ricerca si propone di guardare al dibattito da una prospettiva ‘integrazionista‘, facendo il punto dopo decenni di raccolta di evidenze fossili e genetiche, al fine di avanzare un modello che racchiuda le suggestioni teoriche provenienti da più parti. All’interno del modello Recent African Origin (RAO), sono essenzialmente due le alternative: un’ipotesi che postula un’origine singola della nostra specie; e un’altra, che avanza una genesi multiregionale.
Prima, però, una breve parentesi storica.

Il pluralismo teorico interno al pensiero evoluzionistico
Una corposa tradizione di studi storiografici ha ormai chiarito un dato essenziale della storia del pensiero evoluzionistico: ovvero, che non si ha mai a che fare con opposizioni perfettamente binarie tra filoni teorici. Al contrario, sono talvolta comuni delle zone intermedie che possono rivelarsi teoreticamente proficue. È ciò che ha mostrato Telmo Pievani confrontandosi a più riprese con l’evoluzionismo novecentesco e contemporaneo (Pievani 2012; 2015). In definitiva, non si tratta di leggere il darwinismo e le sue ramificazioni in termini di paradigmi incommensurabili, quanto più come domini talvolta complementari e suscettibili di integrazioni.
Ad esempio, il gradualismo filetico della Sintesi Moderna, secondo cui l’evoluzione biologica procede per infimi gradi, e la sua controparte puntuazionista (evoluzione ‘a salti’) proposta da Niles Eldredge e Stephen J. Gould, potevano apparire inizialmente come contrastanti. Più tardi, si é capito che entrambi i modelli potevano spiegare l’evoluzione su scale temporali e spaziali talvolta differenti (Pikaia ne ha parlato qui). 

Le origini africane di Homo sapiens: prospettive a confronto
Si parlava poco sopra di due ipotesi interne al paradigma RAO: genesi singola e genesi multiregionale.
Vediamole brevemente.
Secondo la prima, ad oggi accreditata in maniera considerevole, le origini della nostra specie sarebbero da ricercarsi in aree definite del continente africano. Nel corso dei decenni, l’Etiopia ha restituito numerosi reperti umani: su tutti, i crani di Herto e Omo Kibish, databili tra 160 ka e 197 ka, con nuove datazioni che fanno risalire i reperti di Omo a 233 +/- 22 ka. Si tratta di fossili con una morfologia a mosaico di fenotipi arcaici e derivati.
Anche il Sud Africa è stato proposto come luogo di origine della nostra specie, anche se gli studi a supporto di quest’ipotesi rimangono di natura controversa. Questo primo filone teorico, inoltre, è informato dalle speculazioni teoriche di Ernest Mayr e dei paleontologi americani Elizabeth Vrba e Stephen Jay Gould, secondo i quali l’instabilità climatica è un fattore chiave nei processi di speciazione.

Analogamente, il multiregionalismo possiede una storia considerevole. Sviluppato a partire dalla prima metà del secolo scorso per poi affinarsi ulteriormente negli anni Sessanta e Settanta attraverso varie forme, quest’ipotesi è stata arricchita soprattutto a partire dagli studi dell’archeologa Eleanor Scerri (Pikaia ne ha parlato qui). A sostenere l’ipotesi sono le nuove ricerche condotte intorno ai reperti di Jebel Irhoud, in Marocco, datati a circa 315 ka (Pikaia ne ha parlato qui). Anche in questo caso si assiste ad un mosaicismo di tratti fenotipici. I reperti di Irhoud, assieme ad ad altre evidenze fossili, corroborerebbe l’ipotesi di un’origine pan-africana secondo la quale i moderni Homo sapiens si sarebbero evoluti a partire da più popolazioni tra loro frammentate. 
Tuttavia, quest’ipotesi non è esente da problemi, a partire dall’impiego stesso del termine multiregionalismo, troppo carico di conseguenze ideologiche, e dal fatto che sia una teoria difficilmente testabile in alcune delle sue conseguenze empiriche.

Potere esplicativo di una sintesi teorica
Per far fronte alla complessità del dibattito, gli autori dello studio tentano un’integrazione di queste due traiettorie. Se, da un lato, l’ipotesi di un’origine singola sembra meglio spiegare il record empirico su scala ‘globale’, dall’altro sono i processi proposti dal multiregionalismo pan-africano a fornire una buona comprensione ai livelli inferiori dei processi micro-evolutivi. 
Vediamo meglio. L’ ipotesi  di una genesi unica spiegherebbe bene l’origine e sviluppo di Homo sapiens all’interno del genere Homo stesso; al contrario, la diversificazione di caratteri interna alla specie stessa può essere meglio descritta dalla seconda ipotesi. Su scala inferiore, si ha a che fare con popolazioni meno ampie che nel tempo sviluppano caratteristiche fenotipiche a loro proprie e che perciò si strutturano geneticamente. Ciò significa che, seppur appartenendo alla stessa specie, presentano un certo grado di differenze subspecifiche. Un po’ come popolazioni di una stessa specie di vertebrati possono differenziarsi a seguito di condizioni ambientali locali.

Gli autori distinguono tre fasi principali all’interno del proprio modello. Al suo interno, si assisterebbe alla progressiva stabilizzazione della serie di caratteri moderni. Semplificando, nella prima fase si assiste un’evoluzione a mosaico di tratti derivati (morfologicamente più “moderni”) combinati a tratti ancora “arcaici” nella metapopolazione africana degli antenati di Homo sapiens (probabilmente Homo heidelbergensis). Nella seconda fase, nel contesto di grandi cambiamenti ambientali, alcuni di questi tratti derivati (riguardanti, ad esempio la faccia e la dentizione) coalescono in una popolazione relativamente isolata, probabilmente dell’Africa orientale, dove però per la prima volta appare una novità significativa: lo sviluppo di una marcata morfologia globulare del cranio. Nell’ultima fase del modello, questa popolazione si espande dentro e fuori il continente Africano, attraverso ondate ripetute, stabilizzando il pacchetto delle caratteristiche morfologiche degli esseri umani moderni, anche mantenendo lo scambio genico con le altre popolazioni della specie ancestrale (in Africa) e delle specie sorelle (in Eurasia).

Insomma, la prospettiva elaborata dai tre autori permette di render ragione dei dati disponibili in maniera parsimoniosa ed efficace. Lungi dall’essere un’alternativa ai modelli già esistenti, il che complicherebbe ulteriormente il quadro, si ha a che fare con una teoria unificante all’interno della quale le evidenze empiriche troverebbero maggiore coerenza.

Resilienza di un programma di ricerca
Alcune considerazioni si impongono.
Si tratta di comprendere come la proliferazione di molteplici alternative teoriche interne al programma di ricerca paleoantropologico siano la causa della resilienza di quest’ultimo; allo stesso tempo, ciò può evidenziarne alcune debolezze, che tuttavia non ne indeboliscono la robustezza teorica.
Spieghiamoci meglio. Se, da un lato, la grande quantità di evidenze empiriche può essere suscettibile di interpretazioni tra loro divergenti e talvolta contrastanti, dall’altro è la stessa diversità nella natura di queste evidenze a rendere pressoché impossibile una confutazione assoluta dell’impianto teorico paleoantropologico. Di fatto, l’incompatibilità che può verificarsi tra record fossile, archeologico e genetico può sovente essere appianata attraverso nuove scoperte empiriche, innovazioni concettuali e della strumentazione scientifica etc.
Ed è proprio la storia della scienza ad insegnare che le contraddizioni spesso non sono che apparentemente insolubili o paralizzanti. Come nel nostro caso, si tratta di cercare la via all’integrazione di prospettive, che possono apparire contrastanti anche sotto il peso di ideologie particolari.

A tal fine, la teoria gerarchica dell’evoluzione, fondata su una pluralità di livelli teorici e empirici tra loro interdipendenti, si rivela un ottimo candidato.  Considerare unità evolutive oltre il livello della specie (geni, individui, taxa superiori) e a più livelli di estensione regionale ha aperto e continua ad aprire nuove direzioni di ricerca.

In conclusione, risalta il ruolo fondamentale che svolge la filosofia della biologia nell’interagire con la ricerca scientifica. In molti casi, è sufficiente adottare uno sguardo più ampio per condurre una pluralità di interpretazione ad una visione più coerente e unitaria.

Bibliografia:

Meneganzin, A., Pievani, T., & Manzi, G. (2022). Pan-Africanism vs. single-origin of Homo sapiens: Putting the debate in the light of evolutionary biology. Evolutionary Anthropology: Issues, News, and Reviews. doi: 10.1002/evan.21955
Pievani, T. (2011). An Evolving Research Programme: The Structure of Evolutionary Theory from a Lakatosian Perspective. The Theory of Evolution and Its Impact. Springer, Milano. doi: 10.1007/978-88-470-1974-4_14

Pievani, T. (2016). How to Rethink Evolutionary Theory: A Plurality of Evolutionary Patterns. Evolutionary Biology, 43(4), 446–455. doi: 10.1007/s11692-015-9338-3

Immagine: GuillaumeG, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons