La dieta dei primi australopitechi

Nonostante la loro corporatura esile, le australopitecine probabilmente possedevano una grande potenza masticatoria, in grado di rompere per scopi alimentari semi e noci dal guscio spesso e resistente. Questa capacità dei nostri progenitori africani sarebbe stata svelata da una recente simulazione computerizzata che ha preso in considerazione la specie Australopithecus africanus, vissuta in un periodo compreso tra 3,3 e 2,5

Nonostante la loro corporatura esile, le australopitecine probabilmente possedevano una grande potenza masticatoria, in grado di rompere per scopi alimentari semi e noci dal guscio spesso e resistente. Questa capacità dei nostri progenitori africani sarebbe stata svelata da una recente simulazione computerizzata che ha preso in considerazione la specie Australopithecus africanus, vissuta in un periodo compreso tra 3,3 e 2,5 milioni di anni fa.

I paleoantropologi hanno realizzato un modello virtuale del cranio di questa specie, sulla base di uno fossile e quasi interamente conservatosi, ed hanno simulato il funzionamento delle mandibole, con particolare riferimento alle forze che queste sono in grado di produrre. Successivamente hanno confrontato l’azione dei muscoli mandibolari dell’A. africanus con quella di una specie ancora esistente e priva delle caratteristiche facciali degli australopitechi, ma di cui sono state a lungo studiate la biomeccanica del cranio, l’architettura e l’attività dei muscoli facciali: il macaco cinomologo (Macaca fascicularis). Le analisi sono state condotte considerando l’azione masticatoria sia dei molari che dei premolari, sia di entrambi questi gruppi di denti contemporaneamente.

In tutte le analisi, lo scheletro facciale di A. africanus risulta maggiormente sotto sforzo rispetto a quella del macaco, suggerendo come la morfologia facciale dell’ominide risulti più infuenzata dalle forze in atto durante la masticazione e, allo stesso tempo, come questa specie fosse in grado di frantumare con i denti alimenti piuttosto coriacei. Di particolare rilevanza nel processo di frantumazione di gusci spessi sembrano coinvolti non i molari, bensì i premolari, denti con cui poteva venire esercitata una buona forza e nella cui posizione potevano essere posizionati cibi di dimensioni ragguardevoli. Per questo motivo i ricercatori affermano che questa specie si nutrisse di semi e noci con un guscio molto spesso, che, date le dimensioni, non potevano essere poizionate nello spazio compreso tra i molari. In precedenza si era ritenuto che questa specie di austrlopiteco “gracile” non facesse uso di cibi duri, in quanto sui molari non è mai stata rilevata la presenza di scalfiture, tipiche invece dei denti di alcune specie “robuste” (Genere Paranthropus) spesso associate al consumo di questo tipo di alimenti.

Questo risultato rafforza l’idea che la morfologia facciale di alcune specie di ominidi arcaici fosse un adattamento ad una dieta specializzata, molto ricca di noci e semi duri, ipotesi già formulata sulla base di alcune caratteristiche dei denti e dello spessore dello smalto, ma che non aveva fino ad ora trovato ulteriori evidenze empiriche a suffragio.

La capacità di rompere e consumare alimenti duri ma presenti con abbondanza nell’ambiente con la forza dei muscoli mandibolari e dei denti, concludono i ricercatori sulle pagine della rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, potrebbe aver rappresentato una strategia vincente per questi ominidi arcaici, soprattutto nei peridodi di cambiamenti climatici e scarsità di cibo e in assenza di utensili in pietra che potevano agevolare questo compito.

Andrea Romano

Riferimenti:
David S. Strait, Gerhard W. Weber, Simon Neubauer, Janine Chalk, Brian G. Richmond, Peter W. Lucas, Mark A. Spencer, Caitlin Schrein, Paul C. Dechow, Callum F. Ross, Ian R. Grosse, Barth W. Wright, Paul Constantino, Bernard A. Wood, Brian Lawn, William L. Hylander, Qian Wang, Craig Byron, Dennis E. Slice, and Amanda L. Smith. The feeding biomechanics and dietary ecology of Australopithecus africanus. PNAS, 2009; DOI: 10.1073/pnas.0808730106

Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons