La funzione del manto striato delle zebre: un grande interrogativo per i biologi

Il manto striato non si sarebbe evoluto come risposta antipredatoria: sfortunatamente, si sa ancora poco sulle sue potenziali funzioni adattative

L’enigmatica bellezza del manto striato delle zebre ha fortemente catturato l’attenzione dei biologi, così come dei naturalisti del passato che, da sempre, hanno cercato di capire il perché della loro origine e quindi, della loro funzione. Al momento, sono state formulate quattro principali ipotesi sulla sua evoluzione. Una possibile spiegazione suggerisce che questo particolare pattern sia importante nel rafforzare i legami intraspecifici, ossia, facilitare il riconoscimento individuale da parte dei suoi conspecifici. Altri, invece, sostengono che l’accostamento di colori scuri e chiari sia efficace nell’allontanare gli ectoparassiti come mosche e tafani, perché questi preferirebbero superfici a tinta unica su cui posarsi. Una terza ipotesi riguarda la termoregolazione: la presenza di un così forte contrasto cromatico causerebbe la formazione di piccoli spostamenti d’aria, che raffredderebbero il corpo surriscaldato della zebra. Infatti, le strisce scure e chiare, scaldandosi differentemente perché le prime assorbono più calore delle seconde, raggiungerebbero temperature diverse e il cambiamento termico, a sua volta, originerebbe queste microcorrenti sulla pelle dell’animale. Tuttavia, la possibilità che l’alternanza di strisce verticali scure e chiare possa essere una risposta antipredatoria è la più accreditata delle quattro ipotesi; secondo questa idea, il manto di questi ungulati perissodattili (ordine Perissodactyla) servirebbe principalmente a confondere i predatori (ad esempio, le strisce hanno un effetto disruptivo sul contorno del corpo delle zebre), facendo in modo che l’animale possa mimetizzarsi con l’ambiente circostante. Le strisce, infatti, conferirebbero una colorazione grigia in situazioni di bassa intensità luminosa (p.es. al crepuscolo), così da sfavorire l’individuazione della zebra da lontano. 

Tuttavia, per testare questa ipotesi, si sono sempre considerate le capacità visive dell’uomo e mai il “punto di vista” del predatore o della zebra stessa, animali che hanno una visione completamente diversa dalla nostra. Se si considera, quindi, quest’ultimo aspetto, la credibilità dell’ipotesi dovrebbe essere “rimessa in gioco”. Uno studio, pubblicato su Plos One, ha cercato proprio di testare quest’ultima ipotesi, analizzando come le zebre apparissero agli occhi non solo dell’uomo, ma anche di due suoi predatori, il leone (Panthera leo) e la iena maculata (Crocuta crocuta), e di due specie di zebra (Equus zebra, anche detta zebra di montagna, e Equus grevyi, zebra di Grévy). I ricercatori hanno preso alcune immagini di zebre singole o in gruppo e di altri ungulati (il topi Damaliscus lunatus jimela, il cobo Kobus ellipsiprymnus, l’impala Aepyceros melampus), alle quali hanno successivamente applicato dei filtri (un filtro a visione dicromatica, tipica di leoni, iene e zebre, e un filtro a visione tricromatica, per rappresentare l’occhio umano) che simulassero la visione a diverse intensità luminose e a diversa distanza delle specie prese in esame.

I risultati mostrano che di giorno l’uomo ha una capacità di risoluzione delle strisce migliore di quelle di leone e iena maculata (l’uomo riesce a distinguere le zebre fino a una distanza massima di 360 m, il leone di 80 m, la iena di 48 m; si veda questa immagine), e analogamente accade anche a medie intensità luminose (distanza massima di risoluzione dell’uomo: 139 m, del leone: 46 m, della iena: 26 m). Al crepuscolo, invece, pressoché tutte le specie hanno una scarsa capacità di risoluzione a grandi distanze (uomo, leone, iena e zebre devono stare a una distanza minore di 16 m per poter distinguere le strisce; si veda questa immagine). Quindi, una scarsa capacità risolutiva dei predatori, in situazioni di basse intensità luminose e di lontananza dall’ungulato, suggerirebbe che il pattern striato delle zebre non abbia una funzione di camouflage. Oltretutto, al buio, quando cioè leone e iena intensificano le loro attività di caccia, la distanza sufficiente a consentire una buona risoluzione delle strisce da parte del predatore è minima e, sfortunatamente per la zebra, a quel punto è molto più facile per il carnivoro percepirla con l’odorato e l’udito, vanificando, quindi, la possibile utilità delle strisce, come risposta antipredatoria. Confrontando poi le immagini delle zebre con quelle delle altre specie di ungulati, è stato visto che la specie più criptica e difficile da localizzare per uomo, leone e iena, è l’impala (si veda questa immagine), suggerendo, quindi, che in ambienti aperti, dove, oltretutto, le zebre passano la maggior parte del loro tempo, non sono le strisce la forma di mimetismo migliore. In situazioni di scarsa luminosità, in ambienti forestali, invece, il pattern striato darebbe chances in più alle zebre per sfuggire a eventuali predatori. Le strisce verticali nere, infatti, simulerebbero la scura forma degli alberi, mentre un corpo dai colori omogenei risalterebbe di più. Tuttavia, come è stato suggerito prima, la capacità mimetica delle strisce è massima solo a distanze ridotte dal predatore, dove l’animale riuscirà comunque a percepire la presenza della sua preda, grazie ad altri sensi, anziché alla vista.

In conclusione, questi risultati contraddicono l’ipotesi che il manto striato delle zebre si sia evoluto come funzione antipredatoria, dal momento che questo non risulta perfettamente visibile a grandi distanze dai predatori. La buona visione delle zebre, invece, suggerisce, anche se serviranno conferme, che sia più corretta l’ipotesi sul rafforzamento dei legami tra conspecifici. Tuttavia, i loro parenti più prossimi (i cavalli) sarebbero perfettamente in grado di riconoscere i propri simili, senza alcuna necessità di far riferimento a segni particolari come le strisce. È quindi probabile che anche le zebre abbiano le stesse capacità di riconoscimento e che quindi le strisce non si siano evolute per questa ragione. Questo lavoro mette quindi in risalto il fatto siamo ancora ben lungi dal comprendere il mistero che sta dietro alle strisce delle zebre.  

Riferimenti:
Melin A.D., Kline D.W., Hiramatsu C. et Caro T. (2016). Zebra Stripes through the Eyes of Their Predators, Zebras, and Humans. Plos one, DOI: 10.1371/journal.pone.0145679

Immagine credits: Andrea Romano