La natura ce l’ha già: l’arcolaio di Maleficient

Per far cadere la bella addormentata nel suo magico sonno la strega cattiva usa un arcolaio avvelenato, ma l’evoluzione aveva portato a simili stratagemmi ben prima che venisse scritta la celebre fiaba di Perrault.

“Prima che il sole tramonti sul suo sedicesimo compleanno, ella si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà”, vaticinò la strega Malefica per colpa di un mancato invito. Favole. In barba a Serenella, però, Fauna e Flora si sono alleate almeno in una occasione per dare alla Natura un proprio arcolaio a quattro zampe, sotto le sembianze poco socievoli di un roditore africano stranamente lento e noto come ratto dalla criniera. A quanto pare, in Lophiomys imhausi l’evoluzione ha trovato il modo di riciclare un veleno vegetale, risparmiando all’animale l’invito (stavolta da rifiutare a tutti i costi) come protagonista di banchetti altrui. 

Veleni che fanno bene 
Nella faccende naturali, come in una fiaba secondo Propp, non è tanto rilevante chi siano i protagonisti quanto quello che fanno, ma in un racconto anche i comprimari contano e vanno introdotti a dovere. Il primo ad entrare in scena è un uomo, un botanico scozzese appassionato di Africa chiamato John Kirk. Il signor Kirk soffriva di angina pectoris, ma questo non gli impedì di esplorare parte dell’allora ignoto continente nero assieme al più noto dottor David Livingstone, nel 1859. Durante il viaggio si occupò di raccogliere campioni delle piante più disparate, di cui si faceva raccontare gli impieghi etnobotanici dalle popolazioni locali, per riportare poi informazioni e campioni in patria dando il suo contributo alle conoscenze in merito. Erano anni avventurosi e molto eccitanti sia dal punto di vista intellettuale che materiale e persone come Kirk e Livingstone scandagliavano l’ignoto come ora farebbe un astronauta su Marte, se mai ci potesse arrivare. Lavandosi i denti durante il ritorno in patria dopo una spedizione dalle parti di Kenya e Tanzania, Kirk si accorse che i sintomi del suo male al cuore erano quasi spariti e che il suo battito era notevolmente rallentato. Con acume scoprì che lo spazzolino da denti, distrattamente gettato nella borsa, si era sporcato con alcune gocce di un veleno per frecce usato dai cacciatori di elefanti nell’Africa orientale, estratto dai semi piumati di Strophanthus kombé, una liana simile ad un grosso e vistoso gelsomino (quello vero). 
All’epoca di Kirk i semi di strofanto erano usati come veleno per cacciare gli animali, anche di grossa taglia (elefanti, ippopotami), per la cattura dei quali l’uomo avrebbe dovuto mettere a serio repentaglio la propria vita. Questa possibilità è garantita da due fattori: innanzitutto i semi contengono sostanze dotate di un’efficacia quasi immediata in caso di somministrazione parenterale (per iniezione, come quella che si ha con l’uso di lance, frecce avvelenate e fusi di arcolaio, naturalmente). Questo permette di uccidere gli animali pur colpendoli una sola volta e tenendosi a debita distanza, recuperando però immediatamente la preda senza doverla inseguire per ore durante la sua agonia. Si dice che gli animali spesso muoiano all’interno di un raggio di 100 metri dal punto in cui sono stati colpiti. Inoltre, la scarsa tossicità (ovvero la minore efficacia, importante nell’aneddoto di Kirk) di queste sostanze se assunte per bocca permette di consumare le carni avvelenate senza rischiare di esserne a propria volta intossicati. Ora che la pianta e le molecole che contiene sono state studiate siamo in grado di introdurle da protagoniste nel nostro racconto: si sa ad esempio che questo stratagemma è garantito da una precisa motivazione di farmacodinamica. 
Le sostanze assimilate per via alimentare sono sottoposte a un passaggio epatico prima di entrare definitivamente nel circolo sanguigno e distribuirsi nell’organismo. Questo passaggio in molti casi detossifica potenziali veleni grazie all’acidità dello stomaco, all’azione dei microrganismi intestinali e dei sistemi enzimatici microsomiali del fegato. Il veleno dello strofanto non è in realtà del tutto innocuo per via orale, ma alle dosi usate per cacciare non provoca danni all’uomo. Al contrario, le sostanze che vengono iniettate con una freccia nei muscoli o nelle vene giungono al sito d’azione (in questo caso il cuore) senza passare attraverso questo filtro, la cui funzione di autodifesa contro intossicazioni accidentali e come meccanismo di protezione contro i molti composti tossici, presenti anche nelle comuni piante alimentari è ben evidente. La stessa quantità letale tramite iniezione non lo è per via orale quindi, ed è anche per questo motivo che molti farmaci sono somministrati per via intramuscolare o endovenosa: la loro efficacia risulta molto maggiore. 
Le sostanze presenti nella piante di strofanto e responsabili dell’azione sul cuore sono glicosidi (detti cardioattivi o digitalici) formati da una parte zuccherina (che ne regola la solubilità) e da una parte apolare di tipo steroideo (che determina l’azione); una volta giunti a contatto con i tessuti del muscolo cardiaco questi composti bloccano i sistemi con cui le cellule regolano le contrazioni del cuore. Se la dose è ridotta, aiutano a risolvere varie disfunzioni, tra cui quella di cui soffriva John Kirk, ma se la quantità che giunge direttamente al cuore è eccessiva, questo si blocca con ovvie conseguenze più gradite alla Strega Malefica. Partendo dalla scoperta di Kirk, l’uso diretto o indiretto dei glicosidi cardioattivi (in forma di molecole da esse derivate) si è quindi imposto nella produzione di importanti farmaci per trattare varie patologie cardiache. Ma non sono certo affari di cuore quelli che interessano la strega Malefica e il ratto dalla criniera. 
Un trucco già visto 
Prima di arrivare nelle nostre farmacie, i glicosidi erano quindi un veleno da caccia. E prima che l’uomo si accorgesse delle loro doti e ben prima che l’arcolaio avvelenato entrasse nel castello della principessa Aurora/Rosaspina, questi composti erano già un’efficace soluzione difensiva per il vero protagonista della storia, l’arcolaio a quattro zampe. E curiosamente, le due soluzioni (la tecnologica e l’evolutiva) si assomigliano moltissimo. La preparazione del veleno per frecce a base di strofanto prevede i seguenti passaggi: i semi privati del rivestimento e del pappo sono pestati in un mortaio e alla miscela viene aggiunta la linfa o il latice appiccicoso di altre piante, per facilitarne l’adesione alla punta della freccia o della lancia, che vi viene immersa, imbibendo soprattutto la parte legnosa dell’innesto, che è più adsorbente della punta metallica. In questa maniera si riesce a depositare sull’arma una quantità sufficiente a uccidere un elefante e si riduce la possibilità che il cacciatore si possa intossicare per tagli accidentali con la punta della freccia. I glicosidi cardioattivi con queste doti non sono in realtà un prerogativa del genere Strophanthus, ma per effetto di una convergenza evolutiva li ritroviamo anche in specie assai distanti dal punto di vista botanico, come quelle europee del genere Digitalis e in altre piante africane, come quelle del genere Acokanthera. E sono esattamente queste ultime quelle usate da Lophiomys imhausi, che come ogni roditore vanta una lunga serie di possibili predatori da schivare, come inviti sgraditi a feste pericolose.

Mentre i cacciatori pestano i semi di Strophanthus, il ratto dalla criniera mastica la corteccia di specie Acokanthera (trascurando foglie e altri organi meno ricchi di glicosidi cardioattivi) e spalma la soluzione di saliva e glicosidi così ottenuta su una parte ben precisa e specializzata del proprio vello, una striscia di peli rigidi specializzati per rizzarsi in caso di pericolo e che in condizioni normali restano nascosti sotto la normale pelliccia.

 Così facendo quei fusi appuntiti si trasformano in un arcolaio velenoso, che intossica gli animali desiderosi di mordere il ratto iniettando nel loro muso e nella loro bocca la miscela cardiotossica: non sono rari i casi di cani morti per arresto cardiaco dopo aver incautamente aggredito il roditore.Non paghe di averlo dotato di questo deterrente, Flora, Fauna ed Evoluzione hanno poi operato di fino, ottimizzando il sistema di somministrazione. Se osservati al microscopio elettronico e come mostrato dal video qui sopra i peli mostrano una struttura particolare, con un apice appuntito e rigido (analogo alla punta metallica delle frecce, capace di bucare la pelle o la mucosa della bocca dei predatori) e una parte centrale curiosamente traforata e spugnosa, in cui il veleno vegetale resta imbibito senza poi defluire. Queste strutture aumentano di molto l’efficacia del sistema di difesa dell’animale nei confronti dei predatori, perché permettono di accumulare grosse quantità di glicosidi cardioattivi e di conservarle, come siringhe cariche, fino al momento del bisogno. 
Lo stratagemma del rendersi velenosi non è una novità in ambito animale ed esistono intere catene alimentari specializzate, con formiche, bruchi e insetti adulti che mangiano piante velenose trattenendone le tossine e animali, spesso anfibi, resi immuni dall’evoluzione, che si cibano di quei bruchi per risultare a loro volta indigesti ai loro predatori. Per risalire ad un comportamento simile nei mammiferi, però, bisogna incontrare il riccio europeo, ma stavolta la tossina viene presa in prestito dai rospi di cui esso si ciba, ovvero un altro animale e non una pianta e il loro comportamento non è letale date le quantità troppo ridotte e la minore tossicità del veleno. Ma siccome tutto torna, la tossina con cui rospo prima e riccio poi si difendono è anche in questo caso un glicoside cardioattivo, dalla struttura molto simile a quella dello strofanto e dell’acokanthera, una delle rare occasioni in cui la Strega Naturae, con l’aiuto di Fauna e Flora, si è divertita a fare cose simili con piante e animali.

(grazie a Lisa Signorile per le preziose informazioni su rospi e altre bestie). 

Riferimento: Kingdon, J., Agwanda, B., Kinnaird, M., O’Brien, T., Holland, C., Gheysens, T., Boulet-Audet, M., & Vollrath, F. (2011). A poisonous surprise under the coat of the African crested rat, Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 279 (1729), 675-680 DOI: 10.1098/rspb.2011.1169
Renato Bruni da Erba Volant

Crediti immagine: Gustave Dorè via Wikimedia Commons