“La vita sul nostro pianeta”, recensione dell’ultimo libro di David Attenborough

Pikaia ha letto per voi “La vita sul nostro pianeta. Come sarà il futuro?”, il testamento culturale del naturalista inglese David Attenborough per tutti coloro che vogliono preservare la bellezza del nostro pianeta

“Questo libro è la storia di come siamo arrivati al nostro errore più grande e di come, se agiamo subito, potremmo essere ancora in tempo per rimediare”.
Inizia così l’ultimo libro del naturalista inglese David Attenborough, da poco disponibile in italiano con il titolo La vita sul nostro pianeta (Edizione Piemme, 2020).

Di pagina in pagina, La vita sul nostro pianeta ci propone una lettura sistematica di come è cambiato il rapporto tra uomo e natura negli ultimi settant’anni. Partendo dal 1937, il libro ci mostra la progressione drammatica dell’erosione degli ecosistemi operata dall’uomo e gli esiti della diffusione sempre più capillare delle attività umane, che hanno oggi ridotto a poco più del 30% le aree incontaminate del nostro pianeta.

Il libro di Attenborough racconta il declino della biodiversità sia negli ambienti terresti che in quelli marini, ma è indubbiamente in questi ultimi che il quadro raccontato dal naturalista inglese presenta gli elementi di maggiore preoccupazione: “L’habitat più grande – scrive Attenborough – è l’oceano. Copre oltre il 70% della superficie terrestre, ma, essendo molto profondo, rappresenta il 97% dello spazio abitabile del nostro pianeta. (…) Siamo diventati così abili nella pesca che alla fine del Ventesimo secolo l’umanità aveva depredato gli oceani del mondo del 90% dei grandi pesci. (…) Eppure, fino agli anni Novanta erano poche le prove della catastrofe che si stava consumando in acqua”.

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature dal gruppo di ricerca dell’ecologo marino Nicholas K. Dulvy della Simon Fraser University (Canada) dal 1970 ad oggi si è osservata una perdita nell’abbondanza globale di squali e razze del 70% e il oltre il 75% delle specie è ora a rischio di estinzione. La situazione è decisamente preoccupante, tanto che l’equipe di Dulvy suggerisce l’adozione urgente di specifiche proibizioni e limiti al fine di evitare il collasso di queste specie e il danno agli ecosistemi di cui esse sono parte. Solo adottando soluzioni adeguate alla gravità della attuale situazione possiamo pensare di favorire il recupero della loro abbondanza e tutelare di ecosistemi marini. Senza opportuni interventi l’unico risultato che otterremo sarà una perdita crescente della vita oceanica.

Dati preoccupanti erano stati presentati la scorsa estate dal Wwf grazie al progetto Meco (Mediterranean Elasmobrach Citizen Observation). I dati ottenuti indicano che, sebbene il Mediterraneo sia un hotspot di biodiversità con più di 80 specie censite di squali, oltre la metà delle specie presenti è minacciata e alcune rischiano di estinguersi.

Oggi preleviamo – scrive Attenborough – oltre ottanta milioni di tonnellate di pesce dagli oceani e abbiamo ridotto il 30% delle riserve ittiche a livelli critici. Quasi tutti i grandi pesci oceanici sono scomparsi. Abbiamo perso circa la metà dei coralli delle acque poco profonde del mondo e quasi ogni anno continuano a verificarsi sbiancamenti su larga scala. Lo sviluppo urbano delle coste e gli allevamenti ittici hanno ridotto di oltre il 30% l’estensione delle mangrovie e dei letti di alghe”.

Come è stato possibile non cogliere subito i segnali di tale degrado? Come suggerisce Attenborough, i coralli sbiancati erano come i canarini di una miniera a carbone, erano un segnale inequivocabile che purtroppo non abbiamo saputo (o voluto) cogliere.

Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Annals of Global Health a fine dello scorso anno ha evidenziato che lo stato di salute dei mari è peggiore di quanto pensassimo anche per i livelli di inquinanti e per la presenza ormai ubiquitaria di microplastiche. Sebbene la natura dovrebbe avere un valore di per sé, può essere oggi utile chiedersi quali saranno i costi che dovremo affrontare in termini di salute umana se non faremo scelte adeguate.

Spostandoci sulla terraferma, il quadro che Attenborough riporta non è certamente più roseo, considerato che abbiamo dimezzato le foreste pluviali e ciò che ne che resta è frammentato a causa di strade e altre strutture.
“La verità – scrive Attenborough – è che c’è sempre stato un doppio incentivo per abbattere le foreste: la legna e i prodotti della coltivazione del terreno ricavato dalla deforestazione”. La deforestazione che oggi vediamo sempre più ricorrente nelle foreste pluviali (su Pikaia ne avevamo recentemente parlato qui) “è soltanto l’ultimo capitolo di un processo di deforestazione globale che opera da millenni”.

Come conseguenza di tali azioni, in poco più di 50 anni è andato perduto l’83% dei mammiferi selvatici e la biomassa degli insetti è diminuita con tassi che oscillano tra il 70 e il 98% a seconda delle specie e del periodo dell’anno (su Pikaia avevamo parlato qui dello stato di salute della biodiversità).

La rivista New Scientist nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo che mostra con grafici di facile lettura l’impatto che abbiamo avuto sugli ecosistemi (qui l’articolo) e il quadro che ne emerge è decisamente cupo perché mostra l’assiduità con cui abbiamo alterato gli ecosistemi. Come sottolineava Massimo Sandal, autore del libro La malinconia del mammut, in una intervista a Pikaia: “Non c’è mai stata un’epoca d’oro in cui eravamo in armonia con la natura: sgomitare con le specie e buttarle (a volte letteralmente) dal burrone è sempre stata la nostra regola per sopravvivere, parafrasando un racconto di Richard Matheson. (…) Dobbiamo quindi capire in che direzione muoverci, come vogliamo rapportarci con le specie viventi, cosa sono loro per noi e perché vogliamo salvarle o lasciarle perire. Serve, prima ancora di una riflessione ecologica, una riflessione culturale su questo tema.”

In natura – scrive Attenborough – le popolazioni di animali e piante in ogni habitat rimangono di dimensioni approssimativamente stabili nel tempo, in equilibrio con il resto della comunità. Se sono troppi, ogni individuo farà più fatica a ottenere ciò di cui ha bisogno, per cui alcuni moriranno o si sposteranno altrove. Se sono troppo pochi, le risorse saranno più che sufficienti per tutti. Così si riprodurranno bene e la specie raggiungerà ancora una volta il suo pieno potenziale. Aumentando o diminuendo leggermente, la popolazione di ogni specie oscilla intorno a un numero che l’habitat può sostenere. (…) Io e voi apparteniamo alla specie animale più diffusa e dominante sulle Terra. Oggi siamo quasi 8 miliardi e abbiamo raggiunto questa posizione a velocità stratosferica. È successo tutto negli ultimi duemila anni. Sembriamo esserci liberati delle restrizioni che governano le attività e il numero degli altri animali”.

Poco più di cinquant’anni fa, l’astronauta William Anders scattava dal modulo di comando dell’Apollo 8 una fotografia della Terra che sarebbe diventata molto nota, forse la più famosa mai scattata, e che tutti conosciamo come Earthrise. Questo scatto divenne ben presto una delle icone dei movimenti ambientalisti, perché obbligava alla presa di coscienza del fatto che la nostra sopravvivenza dipendeva dal modo in cui avremmo saputo gestire gli ecosistemi di quel piccolo puntino blu nell’immensità del cosmo.

Nei giorni scorsi il rover della Nasa Perseverance ci ha mandato le prime fotografie del cratere Jezero, un bacino largo 45 chilometri a Nord dell’equatore marziano, che circa 4 miliardi di anni fa conteneva un lago e forse forme di vita. Potrebbe essere giunto il momento per tornare a recuperare dal cassetto anche la celebre Earthrise per ricordarci che solo restituendo spazio alla natura ci si presenterà l’opportunità di una riconciliazione con il mondo naturale, sia in terre e mari lontani sia nel nostro ambiente locale. Solo rinunciando al nostro dominio sulla natura garantiremo stabilità al nostro pianeta e alle generazioni a venire.

Immagine: via Librando magazine