L’Antropocene favorisce la zoonosi inversa, mettendo a rischio la conservazione della biodiversità e la salute pubblica

Secondo un recente lavoro pubblicato su Ecology letters, ci sono quasi 100 casi documentati di zoonosi inversa, dove cioè una malattia è passata dall’uomo agli animali

Non solo gli animali possono trasmetterci malattie, ma noi possiamo trasmetterle a loro. Questo fenomeno, chiamato zoonosi inversa o spillback, accade più spesso di quanto possiamo immaginare. Secondo un recente lavoro pubblicato su Ecology letters, ci sono quasi 100 casi documentati dove una malattia è passata dall’uomo agli animali. Questo risultato, però, non dovrebbe sorprenderci.

La zoonosi nell’antropocene

Non dovremmo mai dimenticare che condividiamo il pianeta con altri organismi, e che prima di essere membri di una comunità umana siamo membri di una comunità vivente terrestre che comprende tre domini e sette regni. Una comunità nella quale le sorti di ogni specie sono strettamente intrecciate tra loro. E poi ci sono i virus.

Quando affrontiamo malattie causate da agenti patogeni come questi, ci troviamo a fare i conti con parassiti che abitano questa Terra da miliardi di anni. La velocità con la quale sono in grado di riprodursi e mutare permette loro di adattarsi efficacemente alle nuove condizioni ambientali, caratteristica che fa di questi parassiti obbligati (simbionti), delle macchine darwiniane perfette.

Come se non bastasse, l’Antropocene, che vede l’attività umana come principale attore del mutamento ambientale e climatico, crea le condizioni migliori affinché queste macchine darwiniane possano operare al meglio. La trasmissione delle malattie da animale a uomo (spillover) o da uomo ad animale (spillback) avviene per contatto diretto o per mezzo di un vettore intermedio. Sono dunque gli elementi che favoriscono le possibilità di interazione tra uomini e animali selvatici ad aumentare esponenzialmente il rischio del diffondersi di malattie infettive.

I casi noti di spillover, in particolare, mettono in risalto le frivolezze e le criticità presenti nel nostro sistema socio-economico, turistico e commerciale, soprattutto per quanto riguarda la produzione agro-alimentare e la filiera della carne. Non secondario è il progressivo avvicinamento degli animali selvatici ai centri urbani. Le cause di questa dinamica possono essere molteplici. L’erosione degli habitat è quella principale, alla quale si aggiungono l’impoverimento del suolo, l’inquinamento dell’aria e un prelievo eccessivo di selvaggina, fattori che possono impoverire l’ecosistema di risorse, spingendo gli animali selvatici a cercare fonti di cibo facile in prossimità dei centri urbani e aumentando le possibilità di venire in contatto con animali domestici ed esseri umani.

Tutte le influenze umane sono esempi di zoonosi, come la spagnola del 1918-1919, la peste bubbonica e l’ebola. Ma lo sono anche malattie virali come l’AIDS ed è confermato che circa il 60% delle malattie infettive per l’uomo oggi conosciute abbiamo avuto origine da fenomeni di zoonosi.

Le ricerche sulla zoonosi inversa

È proprio alla luce di queste circostanze che Gregory Albery, ricercatore presso il Dipartimento di Biologia della Georgetown University, si è interrogato sul rischio per la conservazione e la salute pubblica nella trasmissione di agenti patogeni (virali e non) da uomo a fauna selvatica e del loro ulteriore spillover. Dalle ricerche pubblicate in “Spillback in the Anthropocene: the risk of human-to-wildlife pathogen transmission for conservation and public health”, emerge che vi sono 97 casi verificati di trasmissione da uomo ad animale, di cui 44 in cattività, 21 liberi e 24 confidenti, con esiti fatali specialmente su primati non umani e animali negli zoo.

Quando si verifica un’improvvisa mortalità all’interno di una popolazione selvatica, afferma il team della Georgetown University, i ricercatori considerano immediatamente la possibilità di una trasmissione virale da uomo ad animale come causa principale. Ogni qualvolta lo spillback provoca l’insorgere di malattie mortali, l’agente patogeno e il relativo processo di trasmissione è facilmente rilevabile, specialmente nel monitoraggio a lungo termine della malattia. Non viene mai escluso, proseguono, che la trasmissione di agenti patogeni da uomo ad animale possa non lasciare tracce evidenti. Tuttavia, alla luce dei casi noti, la scarsa rilevabilità dello spillback suggerisce che l’agente patogeno, qualora sia stato trasmesso, non abbia causato direttamente la morte degli individui ma vada considerato piuttosto una concausa del decesso. Esempio significativo é quello della crisi popolazione dell’Antilope delle steppe (Saiga tatarica tatarica) in Kazakistan nel 2015. In questo caso la zoonosi inversa è stata considerata e poi esclusa.

Lo spillback, conclude Albery, solo raramente gioca un ruolo rilevante nel causare la mortalità di una popolazione selvatica. Le cause principali che minacciano la conservazione della biodiversità e favoriscono l’insorgenza di malattie negli animali, che possono poi essere trasmesse all’uomo mediante zoonosi, restano la degradazione del suolo, la perdita di habitat e l’inquinamento dell’aria, fattori che possono creare stress nutrizionali nelle specie selvatiche, sopprimere il loro sistema immunitario e favorire l’insorgere di malattie, alcune delle quali possono essere trasmesse all’animale per zoonosi inversa. L’introduzione di un agente patogeno da parte dell’uomo in popolazioni frammentate e compromesse come queste costituirebbe solo “l’ultimo chiodo nella bara” e non la causa principale del decesso.

Non è un caso che delle 56 specie selvatiche colpite da zoonosi inversa, il 23,2% sia anche inserita nella Lista Rossa IUCN delle specie a grave rischio di estinzione, prevalentemente a causa di stressori antropogenici (depauperamento del suolo, inquinamento dell’aria, ecc. ecc.).

Possiamo prevenire i casi di spillover e di spillback?

La Covid-19 è tra le malattie più monitorate di sempre e particolare attenzione viene prestata negli zoo e nelle altre situazioni di cattività. Condizioni come queste permettono di rilevare lo spillback appena si verifica e tener monitorati gli effetti della trasmissione degli agenti patogeni, delle sue conseguenze a breve e lungo termine e del verificarsi di un eventuale secondo spillover. Nonostante si creda che gli zoo espongano gli animali a un fattore di rischio altissimo, a conti fatti, tra milioni di animali detenuti, sono solo 23 i casi di spillback che hanno avuto esiti mortali sui primati, 16 sugli animali non primati, complice anche il fatto che questi animali sono costantemente assistiti da veterinari professionisti.

L’attenzione che si è dedicata alla Sars-CoV-2 negli ultimi anni ha permesso alla ricerca sul fenomeno della zoonosi e della zoonosi inversa di fare enormi progressi, soprattutto alla luce degli obiettivi raggiunti nel sequenziamento genomico di molte specie animali e degli agenti patogeni stessi. Ce lo ricorda Colin Carlson, professore di ricerca del Center for Global Health Science and Security presso il Georgetown University Medical Center e co-autore dello studio, che ha affermato “La pandemia ha dato agli scienziati la possibilità di testare alcuni strumenti predittivi, e si scopre che siamo più preparati di quanto pensassimo”.

Oggi possiamo avvalerci di intelligenze artificiali che ci permettono di formulare modelli predittivi su quando e come un agente patogeno potenzialmente infettivo potrebbe essere trasmesso all’uomo e su quali circostanze potrebbero favorire lo spillover.

Viceversa, a causa delle difficoltà che si hanno nel raccogliere informazioni sulle popolazioni selvatiche, è attualmente difficile formulare dei modelli predittivi efficaci sui casi di zoonosi inversa e sul rischio per la conservazione della biodiversità e di una possibile ricaduta sulla salute pubblica.

Dallo studio in questione emerge tuttavia un quadro confortante. Sembrerebbe infatti che i fenomeni riguardanti uno secondo spillover, dopo i casi di zoonosi inversa, siano relativamente unici e che, in ogni caso, costituiscano un rischio minore rispetto alla nostra capacità di rispondere a un’eventuale pandemia.

La Sars-Cov-2 ci ha offerto l’opportunità di studiare più da vicino questi fenomeni e applicare sul campo i traguardi che abbiamo raggiunto nel sequenziamento genomico e nel calcolo computazionale.

Il monito dell’OMS secondo cui non sappiamo quando una prossima pandemia colpirà e con quale gravità, si allontana dunque di qualche passo. Tuttavia, resta vero che le risposte a un’eventuale crisi sanitaria sono tanto efficaci quanto lo è l’anello più debole dei piani sanitari in preparazione e risposta alle emergenze.

Sarebbe però opportuno arginare il prima possibile le cause profonde dell’insorgere di questi fenomeni e comprendere che la tutela della salute pubblica, soprattutto alla luce delle conclusioni del team di ricerca di Gregory Albery, non può più prescindere dalla tutela del benessere ambientale, dei servizi ecosistemici e della biodiversità.

Riferimenti:

Fagre, A. C., Cohen, L. E., Eskew, E. A., Farrell, M., Glennon, E., Joseph, M. B., …Albery, G. F. (2022). Assessing the risk of human-to-wildlife pathogen transmission for conservation and public health. Ecology Letters, n/a(n/a). doi: 10.1111/ele.14003

Immagine: un visone in gabbia. Questa specie è suscettibile a SARS-CoV-2, e può essere trasmesso loro dagli umani (e viceversa). Da https://www.efsa.europa.eu/en/news/sars-cov-2-mink-recommendations-improve-monitoring