L’evoluzione è prevedibile? Forse sì, almeno in alcuni casi

Il compianto evoluzionista Stephen Jay Gould non smetteva mai di ripetere che, riavvolgendo il film della vita e facendolo ripartire, vedremmo sempre una storia diversa. Un’efficace metafora per esprimere l’imprevedibilità dell’evoluzione, un processo guidato dal caso o, più propriamente, dalle contingenze. A tal punto che la scienza che studia l’evoluzione è considerata una “scienza storica”, dal momento che punta soprattutto

Il compianto evoluzionista Stephen Jay Gould non smetteva mai di ripetere che, riavvolgendo il film della vita e facendolo ripartire, vedremmo sempre una storia diversa. Un’efficace metafora per esprimere l’imprevedibilità dell’evoluzione, un processo guidato dal caso o, più propriamente, dalle contingenze. A tal punto che la scienza che studia l’evoluzione è considerata una “scienza storica”, dal momento che punta soprattutto a descrivere fenomeni del passato e a ricostruirne le cause. Come scienza storica, utilizza spiegazioni di tipo storico, che si basano sul fatto che, data una catena causale di eventi, l’ultimo di essi non si sarebbe verificato se una qualsiasi delle fasi precedenti non avesse avuto luogo o fosse stata anche leggermente differente.

Se i dinosauri non si fossero estinti 65 milioni di anni fa, con ogni probabilità persino noi non saremmo mai apparsi sul pianeta.

Arrivano pertanto come un fulmine a ciel sereno le parole di Peter Andolfatto, biologo evoluzionista del dipartimento di ecologia e biologia evolutiva dell’Università di Princeton e del Lewis-Sigler Institute for Integrative Genomics. “L’evoluzione è prevedibile? In una sorprendente misura, la risposta è sì”.

Andolfatto si riferisce ai risultati di un suo recente lavoro appena pubblicato su Science, in collaborazione con altri autori. Secondo tale articolo, la conoscenza dei geni di una specie – e come determinate condizioni esterne agiscono sulle proteine codificate da tali geni – potrebbero permettere di individuare un pattern evolutivo prevedibile, guidato da fattori esterni. Le specie, oltretutto, reagirebbero alle fluttuazioni ambientali in modo simile e stereotipato, dando origine a una grande diffusione di convergenze evolutive: adattamenti analoghi in specie fra loro non imparentate, come le ali degli uccelli e dei pipistrelli.

I ricercatori hanno analizzato specifici tratti di DNA di 29 specie di insetti evolutivamente lontane fra loro, il più grande campione di organismi mai esaminato per lo studio di un singolo carattere evolutivo. 14 di queste specie hanno evoluto un carattere praticamente identico grazie a un ben preciso condizionamento esterno: si nutrono di piante che producono cardenolidi, una classe di cardiotossine utilizzate come difesa naturale. Per quanto separati da quasi 300 milioni di anni di evoluzione, insetti molti diversi – quali afidi, farfalle e scarabei – sono tutti andati incontro alla modificazione di una proteina chiave, l’adenosina trifosfatasi, una pompa che regola la concentrazione di sodio e potassio all’interno della cellula. Tale modificazione inibisce l’azione dei cardenolidi, in grado normalmente di compromettere il corretto funzionamento della pompa sodio-potassio.

Analizzando il DNA delle diverse specie, Andolfatto e colleghi hanno individuato la presenza di varie mutazioni nei geni che codificano per le proteine della pompa sodio-potassio, che determinano lo sviluppo della resistenza alle tossine. Le proteine degli insetti immuni ai cardenolidi hanno subito ben 33 mutazioni in corrispondenza dei siti che presentano la maggiore sensibilità a tali sostanze. Significativamente, le pompe sodio-potassio delle specie che non si nutrono delle piante che producono cardenolidi, presentano invece un’unica mutazione.

Un ulteriore elemento di grande interesse è la presenza di duplicazioni geniche multiple che hanno avuto luogo nei progenitori di molte delle specie resistenti. Si tratta di una mossa strategica che ha permesso agli insetti di fare affidamento su due varianti di proteine: la pompa sodio-potassio convenzionale e una versione sperimentale, presente soprattutto nei tessuti in cui risulta particolarmente necessaria. Il vantaggio della duplicazione genica è evidente: come spiega lo stesso Andolfatto, “l’organismo è libero di sperimentare con una copia, mantenendo l’altra intatta, evitando il rischio che la nuova versione della proteina non esegua più il suo compito al meglio”. Si tratterebbe, dunque, di una valida contromisura atta a reagire ai cambiamenti ambientali.

Questi risultati permettono di ipotizzare che i tre principali meccanismi alla base dell’evoluzione genetica – evoluzione delle proteine, evoluzione degli elementi che regolano l’espressione proteica, duplicazione genica – siano tutti utilizzati dalle diverse specie per superare gli stessi ostacoli evolutivi.

Ma ciò che più conta, come puntualizza il biologo evoluzionista Jianzhi Zhang (che non ha preso parte allo studio) dell’University of Michigan, è che “è altamente improbabile che un’evoluzione parallela in un così alto numero di specie sia avvenuta solo per caso”.

Come ci spiega Andolfatto, “la forza di quello che abbiamo fatto è stato analizzare diversi organismi costretti ad affrontare un problema simile, trovando forti evidenze per un numero limitato di possibili soluzioni. Il fatto che molte di queste soluzioni sono adottate ripetutamente da specie non imparentate suggerisce che il cammino evolutivo sia ripetibile e prevedibile”.

“Sì”, ribadisce Zhang, in linea con le parole di Andolfatto. “L’evoluzione è prevedibile, in una certa misura”. Se queste conclusioni venissero confermate, riavvolgendo il film della vita, qualche storia potrebbe forse ripetersi con un copione abbastanza simile.

Fabio Perelli, da Oggiscienza

Immagine: Credit bob in swamp