L’evoluzionismo anti-darwiniano in America

Ortogenesi e neo-lamarckismo costituiscono una parte fondamentale nella storia del pensiero evoluzionistico moderno: un nuovo saggio, a firma di David Ceccarelli, ne restituisce la complessità storica e teorica

Se paragonassimo, con le dovute cautele, la storia delle idee ai processi dell’evoluzione darwiniana, ci accorgeremmo di alcune somiglianze. Le idee evolvono, si adattano e si estinguono, e possono svilupparsi più volte indipendentemente. Senza voler spingere il paragone troppo oltre, ci si accorge che si tratta di uno sviluppo ramificato, non lineare, in cui molto spesso appaiono evidenti contraddizioni. Una concezione, questa,  che può applicarsi alla storia del pensiero evoluzionistico moderno. E così come i fossili si rivelano estremamente utili per comprendere la biologia dei viventi, anche le idee che apparentemente non hanno avuto seguito possono aiutarci a comprendere meglio lo stato attuale del programma di ricerca darwiniano.

È il caso delle teorie interne alla ‘scuola americana’, così definita da Peter Bowler (1983), e sulla quale il saggio di David Ceccarelli, L’evoluzionismo anti-darwiniano in America (CNR edizioni, 2019) aiuta a far chiarezza. Si può davvero parlare di scuola? O ci troviamo di fronte a una storia del pensiero eterogeneo? È questo il tema introdotto dal volume. Se non si può negare che visioni ortogenetiche e neo-lamarckiane caratterizzarono il lavoro di molti scienziati statunitensi, è altrettanto vero che l’uso e abuso di macrocategorie storiografiche può sovente distorcere la realtà dei fatti: sebbene le teorie evoluzioniste in America fossero in gran parte di stampo anti-darwiniano, numerose divergenze teoriche permasero. Ad esempio, coloro che si scontrarono contro le scoperte del biologo August Weismann (1834-1914), per sostenere una forma di ereditarietà debole, attuarono strategie spesso diverse, non senza difficoltà nel portare prove empiriche a proprio sostegno (pp.48-56).

Agli occhi di un biologo moderno, i dibattiti sull’evoluzionismo anti-darwiniano possono risultare di difficile comprensione a causa di teorie che, intrise come sono di teologia e metafisica, hanno poco di scientifico se riferite alla pratica attuale. Ciò non significa però che costituiscano sviluppi trascurabili.

Tuttavia, per comprendere la necessità di una monografia sulla storia del pensiero anti-darwiniano statunitense, bisogna fare un passo indietro. Ben prima che L’origine delle specie di Charles Darwin (1809-1882) fosse pubblicata nel 1859 (Peckham 2009), la biologia continentale europea era già attraversata da dibattiti sull’immutabilità delle specie. Successivamente alle teorizzazioni proto-evoluzioniste di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829; cfr. Barsanti 2005: 126-161), in Francia due eminenti scienziati, George Cuvier (1769-1832) e Étienne Geoffroy Saint-Hilaire (1772-1844), su cui la Naturphilosophie della stagione idealista tedesca ebbe profonde ripercussioni (Gould 2002: 281-291), avrebbero dominato la scienza europea per oltre mezzo secolo (Barsanti 2005:170-180; Gould 2002: 291-312; Mayr 1982:363-371).  Cuvier, sostenitore dell’immutabilità delle specie e tra i fondatori della moderna anatomia comparata, compì numerosi studi su vertebrati e invertebrati. Egli riteneva che fra i quattro embranchements (livelli di organizzazione) del regno animale, ovvero Radiati, Articolati, Molluschi e Vertebrati, non vi fosse continuità e che all’interno di ogni sezione ci fosse un livello di organizzazione comune. Tale approccio venne contestato dal formalismo di Saint-Hilaire e fra i due, nel 1830, si aprì un dibattito pubblico che durò per otto mesi. A differenza di Cuvier, Saint-Hilaire concepiva gli organismi come strutture plastiche. Inoltre, Saint-Hilaire credeva che vi potesse essere unità strutturale fra i quattro embranchements (teoria degli analoghi; Barsanti 2005:177), cosa che Cuvier negava.

Funzionalismo e formalismo erano dunque i due universi del discorso sui quali si impostava la biologia ottocentesca.  

Tuttavia, non è semplice individuare due blocchi contrapposti. In Richard Owen (1804-1892), anatomista e paleontologo inglese, funzionalismo e formalismo convissero. Sostenendo una visione degli embranchements simile a quella cuvieriana (seppur con alcune differenze) Owen elaborò, sulla scorta degli insegnamenti di Saint-Hilaire, la teoria dell’archetipo dei Vertebrati (Ospovat 1981: 129-146). Egli riteneva che la diversità animale potesse spiegarsi tramite modificazione di un unico animale archetipico, simile a un anfiosso, costituito da segmenti (vertebre) identici, ripetuti in serie e la cui specializzazione avrebbe costituito le diverse parti dello scheletro animale. Lungi dal mettere in pericolo la teologia naturale di William Paley (Gould 2002: 262-271), la teoria di Owen rafforzava la concezione creazionistica della natura, la cui magnificenza si manifestava nei piani strutturali e nelle modificazioni previste dal Creatore.

Conciliare variazione, adattamento e omologia strutturale con un piano provvidenziale divino era stato dunque il filo conduttore della scienza continentale post-lamarckiana. La visione cuvieriana e la morfologia trascendentale (formalista) influenzarono Louis Agassiz (1807-1873), lo scienziato che negli Stati Uniti ebbe un ruolo fondamentale nel diffondere una visione formalista fra i suoi allievi. Sostenendo che fra specie viventi, ontogenesi e paleontologia vi fosse uno stretto legame, Agassiz riteneva che l’ontogenesi fosse una testimonianza non solo della gerarchia delle forme stabilita da Dio, ma anche della storia geologica del proprio embranchement (Ceccarelli 2019: 22). Come sottolinea Ceccarelli, Agassiz non poteva accettare la trasmutazione delle specie a causa dei presupposti formalisti della sua teoria e, a differenza di Cuvier, riteneva che i fenomeni di ripopolamento avvenissero in seguito a creazioni indipendenti. Per Agassiz, la tassonomia era una scienza di prima importanza per cogliere le divisioni naturali fra le specie, divisioni che rispecchiavano il progetto della creazione divina (Gould 2002: 271-278). Oltre all’influenza della morfologia trascendentale di Agassiz, sullo sfondo dell’evoluzionismo anti-darwiniano statunitense vi era anche un sostenuto interesse per l’idealismo e il trascendentalismo filosofico, le cui ripercussioni saranno ben evidenti nello psico-lamarckismo del paleontologo Edward Drinker Cope (1840-1897), secondo il quale una non meglio definita coscienza aveva un ruolo primario nell’evoluzione biologica (pp.41-44).

Attraverso questa intelaiatura di idee pre- e anti-darwiniane, in cui teologia e scienza erano fortemente legate, si comprendono più facilmente gli sviluppi statunitensi del pensiero evoluzionistico. Nel 1866, Alpheus Hyatt (1838-1902), specializzatosi nello studio di Nautiloidi e Ammoniti, diede un’interpretazione evoluzionistica della corrispondenza fra filogenesi, ontogenesi e specie viventi (legge del triplice parallelismo) giungendo a formulare analisi approfondite per affrontare i problemi che le diverse interpretazioni della legge biogenetica ponevano (pp.31-33), cui seguirono le elaborazioni di Cope (pp.33-40) e William Berryman Scott (1858-1947; pp. 57-60).  Anche se alcuni scienziati, fra cui Asa Gray (1810-1888), sostennero e difesero attivamente la teoria darwiniana, rimaneva difficile accettare il principio della selezione naturale: cosa sarebbe rimasto alla provvidenza divina, se tutto si riduceva alla selezione di variazioni casuali?

Una volta adottata una visione anti-finalistica dell’evoluzione animale sarebbe stato semplice poi trasporla a quella umana,  provocando il crollo di una cosmologia millenaria. Questa è forse la causa di tanta resistenza al darwinismo, della paura dell’uomo di perdere il suo posto come essere privilegiato del Creato: un rischio che il fondamentalismo protestante cercò di scongiurare soprattutto fra gli anni ’10 e ’20, raggiungendo l’apice con il celebre processo Scopes del 1925 (pp.85-92) (Pikaia ne ha parlato qui).

Di fatto, in concomitanza con il Primo Conflitto Mondiale il “darwinismo” sarebbe stato sempre più considerato come una delle cause primarie della dissoluzione morale in cui versava la società occidentale del tempo. Ciò fu ribadito da William Jennings Bryan, il campione dell’anti-evoluzionismo statunitense, proprio durante il processo Scopes. Al fine di salvaguardare tanto l’evoluzionismo quanto i fondamenti teologici del Cristianesimo Protestante, autori come Osborn si impegnarono per anni nell’elaborare forme di compatibilismo fra evoluzione e religione, affermando che i dati paleontologici dimostravano la natura direzionale e progressiva del cambiamento biologico, il quale era nient’affatto riconducibile a meccanismi casuali e processi contingenti.

Attraverso queste riflessioni si riesce meglio a comprendere il significato ideologico dell’ortogenesi e del neo-lamarckismo, le correnti discusse nel saggio di Ceccarelli. Queste teorie, postulando la direzionalità dei processi evolutivi, riuscivano in qualche modo a preservare un’immagine finalistica della natura. Ciò avvenne anche e soprattutto attraverso sovrapposizioni di idee e stravolgimenti teorici non indifferenti. Steven Jay Gould (2002: 170-174), a ragione, apre il capitolo su Lamarck con il titolo ‘I miti di Lamarck’. La teoria dei caratteri acquisiti, dell’uso e del disuso delle parti, e di una visione progressiva della trasmutazione così legate al nome del naturalista francese, non restituiscono la  complessità del pensiero lamarckiano: Ernst Mayr, S.J. Gould e Giulio Barsanti hanno provveduto a sfatare le storture teoriche dei neo-lamarckiani che, di fatto, con il lamarckismo originario avevano ben poco a vedere.

A questo punto, fermiamoci un attimo. Per quanto distorto il lamarckismo possa esser giunto in America, è innegabile che esso abbia influenzato il dibattito evoluzionistico post-darwiniano. E per quanto gli evoluzionisti americani mostrassero pregiudizio nei confronti del darwinismo originario, è fin troppo facile considerare il loro lavoro come una deviazione ideologica di cui tener poco conto. Autori come Cope e Osborn, in base ai loro presupposti metodologici e teorici, si erano veramente impegnati nella ricerca di soluzioni a incongruenze che il rigido selezionismo neo-darwiniano sembrava non poter risolvere, a partire dal problema degli organi incipenti e del parallelismo evolutivo.

Thomas Kuhn (2012[1962]) ce l’ha insegnato molto bene: gli scienziati non possono evadere dai condizionamenti sociali e ideologici. Se poi ci troviamo di fronte ad un programma di ricerca giovane, come quello darwiniano, e più generalmente del pensiero evoluzionistico moderno, allora la situazione si complica. La sottodeterminazione, la possibilità di sviluppare teorie divergenti e talora opposte partendo dalle stesse evidenze empiriche, è un problema rilevante che ha caratterizzato gran parte della storia della scienza (Giorello 1994). Per questa ed altre ragioni, l’evoluzionismo anti-darwiniano statunitense deve essere considerato nella sua complessità storica e per la rilevanza e il peso diverso che ha avuto in varie aree del sapere. Si considerino l’influenza che il (neo) lamarckismo ha avuto sullo stesso Darwin (cfr. L’origine cap. 5), sulla biologia di inizio Novecento e sui recenti sviluppi dell’epigenetica (Pikaia ne ha parlato qui) .

Contesti diversi, ma un’idea che emerge, rimane latente e poi riaffiora. Del resto, come nota Mayr (1982:847-848), anche le teorie falsificate hanno il loro valore euristico, rendendo possibile l’elucidazione di problemi non notati prima e a cui la teoria dominante non riesce a fornire risposte coerenti.

C’è un altro punto, secondo me rilevante, che Ceccarelli enfatizza molto bene. La terza e ultima sezione del suo saggio (capp. 5-6) discute il legame fra evoluzionismo anti-darwiniano, religione e  politiche eugenetiche e discriminatorie varate a cavallo fra Ottocento e Novecento. Su quest’ultimo tema si è discusso molto (cfr. Gould 2008; Zenderland 2001), ma nel saggio l’autore si sofferma sul retroterra scientifico, religioso ed evoluzionistico degli scienziati promotori di quelle politiche. Come ricordato, il pensiero teleologico (finalistico) insito nelle teorie anti-darwiniane dominanti poteva facilmente essere trasposto per conseguenza dallo studio del vivente all’uomo, e da qui a quel che si credeva fossero le divisioni interne alla specie umana: le razze. Già Thomas Henry Huxley (1825-1895) aveva messo in guardia, nell’opuscolo Evolution and Ethics (2009[1893]), dall’applicare la teoria darwiniana, formulata per lo studio della biologia, a questioni politiche e sociali; in America fu Franz Boas (1858-1942) a ribellarsi ai suoi colleghi, divenuti eugenisti. Studi più recenti (Ruse e Richards 2017) hanno sviluppato, non senza una visione critica, le conseguenze di un’etica naturalizzata. Se è necessario evitare il riduzionismo biologico (cfr. Wilson 2000), con l’avvertimento di non assumere sempre la natura in funzione normativa (Pollo 2008), cioè di regola a cui conformare la nostra etica, fino a che punto possiamo spingere il dibattito? Dov’è il giusto equilibrio fra etica e natura e qual è il ruolo della bioetica? Sono domande che esulano dallo scopo di questa presentazione, ma su cui è importante riflettere.

Attraverso questa breve recensione, ho cercato di presentare al lettore i temi salienti del volume. Filosofia e storia della scienza, reazione politica e religiosa: sono questi i temi cui Ceccarelli dà rilevanza per mostrare la complessità della storia del pensiero biologico. Una storia che conserva ad oggi tutto il suo interesse per far luce sulla reciproca influenza di scienza, filosofia e ideologia.

Bibliografia:

Barsanti, G. (2005), Una lunga pazienza cieca, storia dell’evoluzionismo, Einaudi, pp. 424

Bowler, P. (1983), The eclipse of Darwinism. Anti-darwinian evolution theories in the decades around 1900, The John Hopekins University Press, Baltimore

Darwin, C. (2006), On the origin of species: a variorum text, by Peckham, M., University of Pennsylvania Press, pp. 816

Giorello, G. (1994), La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, pp. 440

Gould, S. (2002), The structure of evolutionary theory, Harvard University Press, pp. 1433

Gould, S. (2008), Intelligenza e pregiudizio, Il Saggiatore, pp. 382

Huxley, T. (2009[1893]), Evolution and ethics, Cambridge University Press, pp. 57

Kuhn, T. S (2012[1962]), The structure of scientific revolutions, Chicago, pp. 217

Mayr, E. (1982), The growth of the biological thought: diversity, evolution and inheritance, Harvard University Press, pp. 992

Ospovat, D. (1981), The development of Darwin’s theory: natural history, natural theology and natural selection 1838-1859, Cambridge University Press, pp. 301

Pollo, S. (2008), La morale della natura, Laterza: pp. 169

Ruse, M. e Richards, R.J. (2017), The Cambridge Handbook of Evolutionary Ethics, Cambridge University Press, pp. 331

Wilson, E.O. (2000), Sociobiology: the new synthesis, 25th anniversary edition, Harvard University Press, pp. 706

Zenderland, L. (2001), Measuring minds, Cambridge University Press