Lezione di un pesce sull’autocoscienza

Secondo quanto riportano gli autori di un recente articolo scientifico pubblicato sulla rivista Plos Biology, un piccolo pesce pulitore sarebbe in grado di riconoscere il proprio riflesso allo specchio, superando quindi la presunta barriera cognitiva che separa la nostra specie, e poche altre, da tutto il resto della biodiversità. La scoperta riapre un importante dibattito nel mondo scientifico, con fondamentali ripercussioni sulla nostra comprensione e definizione del concetto di autocoscienza

Questo mese, un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Plos Biology [1] ha scatenato l’equivalente accademico di una tempesta nel mondo della psicologia comparata e dell’etologia cognitiva. Si tratta dei risultati di un esperimento condotto dal gruppo di ricerca di Alex Jordan, biologo evoluzionista in forze presso il Max Planck Institut per l’ornitologia di Costanza.

Secondo Jordan e colleghi, infatti, un piccolo pesce pulitore (Labroides dimidiatus) avrebbe superato il test dello specchio, riconoscendo come propria l’immagine riflessa. I pesci utilizzati nell’esperimento, dopo essere stati marcati con un pigmento colorato sottocutaneo ai lati del capo o sulla gola (aree che non potrebbero essere osservate direttamente dall’animale se non, appunto, attraverso il proprio riflesso), quando posti di fronte allo specchio avrebbero esibito un comportamento noto come scraping, in cui l’animale si strofina contro un substrato per rimuovere materiale irritante dalla pelle. I pesci sottoposti al trattamento di controllo e marcati con un pigmento incolore, invece, non hanno esibito alcun comportamento di scraping quando posti di fronte al proprio riflesso.

Il test dello specchio, ideato dallo psicologo Gordon Gallup nel 1970 [2] per studiare l’autocoscienza nei primati non umani, prevede di marcare l’animale con una macchia di colore in una parte del corpo che non possa essere osservata dall’animale stesso se non attraverso l’utilizzo di uno specchio. Il soggetto supera il test se, dopo avere osservato la propria immagine riflessa, tocca o tenta di rimuovere la macchia. Inizialmente concepito come un esperimento per gli scimpanzé, il test è stato successivamente superato anche da oranghi, bonobo e gorilla, delfini, orche, elefanti e gazze [3,4,5].

Sebbene l’esperimento di Alex Jordan abbia evidenziato un chiaro pattern comportamentale nei pesci che si osservavano allo specchio, sono in molti a essersi opposti all’interpretazione fornita da Jordan e colleghi, per cui il pesce avrebbe superato il test dell’autocoscienza. Lo stesso Gallup mette in dubbio i risultati e propone un’ipotesi alternativa: gli strani movimenti (scraping) di Labroides dimidiatus sarebbero un segnale di non ostilità rivolto al pesce nello specchio, per comunicare la disponibilità a cibarsi deIl’ectoparassita (la macchia) sulla gola dell’estraneo. Questa seconda interpretazione, però, non è in grado di spiegare completamente il comportamento osservato dai ricercatori. Se è infatti vero che i pesci pulitori, come Labroides dimidiatus, posseggono un complesso repertorio di segnali comportamentali per indicare ad altri pesci la propria disponibilità a effettuare servizi di pulizia e rimozione degli ectoparassiti, tra questi non annovera lo scraping.

“Se avessi descritto i risultati dell’esperimento omettendo il fatto che la specie coinvolta fosse un pesce, nessuno avrebbe obiettato” commenta Jordan. “Ci sono ricercatori che, a quanto pare, non vogliono che il pesce venga incluso nel club segreto degli animali dotati di autoconsapevolezza”, ha affermato. “Perché questo significa che i primati non sono più così speciali.” Ma concedere a un pesce una qualche sorta di autoconsapevolezza ha anche un significato più profondo: vuol dire erodere la barriera concettuale che separa noi umani da tutte le altre specie. Una barriera che si trasforma progressivamente in una separazione di tipo quantitativo e sempre meno di tipo qualitativo.

I temi al centro del dibattito innescato dalla pubblicazione di Jordan sono sostanzialmente due: che cosa significhi autocoscienza e se, comunque essa sia definita, il test dello specchio sia un strumento affidabile per verificare se un animale la possieda o no. Tuttavia, domandarsi se un animale sia dotato di autocoscienza potrebbe essere una domanda priva di significato, perché, posta in questi termini, la domanda esigerebbe una risposta binaria (sì o no). O meglio, sarebbe una domanda dotata di senso soltanto all’interno di un quadro teorico, appunto, di tipo binario.

La precedente domanda trova infatti ragione di esistere soltanto all’interno del frame proposto dalla teoria cosiddetta del “big-bang cognitivo”, che prevede l’esplosione di autocoscienza in alcune specie e non in altre (in alcuni rami, per rifarsi alla metafora dell’albero della vita darwiniano), senza però considerare i rapporti di parentela tra le specie stesse. Si tratta, infatti, di una teoria che pecca di antropocentrismo perché definisce l’autocoscienza a partire dalla definizione di autocoscienza umana. Non ultimo, è una visione in contrasto con i dati empirici, i quali suggeriscono che le capacità cognitive complesse si siano evolute bottom-up, da tratti più basali e condivisi da numerose specie nell’albero evolutivo [6].

Partendo da questo assunto, il primatologo Frans De Waal suggerisce, invece, di adottare una prospettiva più gradualista [7]. “Sembra una grave semplificazione”, scrive De Waal, “accorpare tutti gli animali che non superano il test dello specchio entro una singola categoria cognitiva che raccolga animali molto diversi tra loro, come piccoli passeriformi  (es: i pettirossi che attaccano il proprio riflesso nello specchio retrovisore delle auto), cani e gatti, che si abituano in fretta allo specchio, ignorandolo, e le scimmie non antropoidi che come alcuni pappagalli utilizzano invece lo specchio per osservare oggetti fuori dal proprio campo visivo”.

De Waal propone di adottare una visione dell’autoconsapevolezza a strati, come una cipolla. Una visione simile è già stata usata per spiegare l’emergere dell’autoconsapevolezza nei bambini. Anche nella nostra specie, un primo interesse dei bambini per la propria immagine riflessa nello specchio si manifesta intorno ai tre mesi di età. A nove mesi i bambini iniziano a riconoscere la corrispondenza tra i  propri movimenti e quelli riflessi, mentre il test di Gallup è superato propriamente soltanto intorno ai 18-24 mesi di età [8].

Al di là, però, del livello di complessità cognitiva necessario per superare il test dello specchio, una cosa sembra chiara. Tutte le specie che finora hanno superato il test di Gallup presentano una elevata complessità sociale e vivono in gruppo (con l’eccezione degli oranghi che nonostante possano esibire temporaneamente comportamenti sociali, tendono a essere considerati una specie semi solitaria). Vivere in gruppo richiede, infatti, la consapevolezza del proprio ruolo individuale, e la capacità di distinguere individui appartenenti al proprio gruppo da individui che invece non vi appartengono (dinamica ingroup-outgroup). Ma significa anche, e soprattutto, essere in grado di distinguere individui con i quali si condivide un rapporto privilegiato come un partner, dei parenti o semplicemente gli amici. Alcuni primatologi, tra cui Nick Humphrey, ritengono che siano proprio le sfide sociali, legate al vivere in gruppo, a selezionare abilità cognitive più sofisticate [9].

Non è un caso, forse, che Labrodes dimidiatus, il pesce pulitore dell’esperimento di Jordan, sia una specie sociale, del quale la dimensione ecologica sia caratterizzata proprio da una complessa rete di relazioni con individui (pesci) di altre specie, anche predatori, che offrono al pesce pulitore la possibilità di ispezionare la bocca in cerca di ectoparassiti. Per questo pesce, un errore di valutazione può infatti costare la vita.

Comunque lo si voglia interpretare, il risultato dell’esperimento di Jordan non rappresenta un attacco all’unicità dell’intelligenza umana. E nemmeno suggerisce di accorciare la presunta distanza cognitiva che ci separa dai pesci. Ci ricorda invece di essere parte di un albero evolutivo ricco e colmo di diversità, dove ogni specie è un mosaico di tratti nuovi e vecchi, alcuni unici e altri condivisi, ma dove ogni interpretazione binaria perde di senso di fronte alla complessità dei percorsi dell’evoluzione.

Ettore Camerlenghi, da La Mela di Newton

Credit immagine: Alex Jordan


NOTE

  1. Kohda M, Hotta T, Takeyama T, Awata S, Tanaka H, Asai J-y, et al. If a fish can pass the mark test, what are the implications for consciousness and self-awareness testing in animals? PLoS Biol. 2019: 1-17.
  2. Gallup GG. Chimpanzees: Self-recognition. Science. 1970; 167: 86–87.

  3. Reiss D, Marino L. Mirror self-recognition in the bottlenose dolphin: A case of cognitive convergence. Proc Natl Acad Sci U S A. 2001; 98:   5937–5942.

  4. Plotnik J, de Waal FBM, Reiss D. Self-recognition in an Asian elephant. Proc Natl Acad Sci U S A. 2006; 103: 17053–17057.

  5. Prior H, Schwarz A, Gunturkun O. Mirror-induced behavior in the magpie (Pica pica): Evidence of selfrecognition. PLoS Biol. 2008; 6: 1643-1650.

  6. de Waal FBM, & Ferrari PF. Towards a bottom-up perspective on animal and human cognition. Trends Cogn Sci. 2010; 14: 201–207

7.de Waal FBM. Fish, mirrors, and a gradualist perspective on self-awareness. Plos Biol. 2019; 17 (2): 1-8.

  1. Archer J. Ethology and human development. Herfordshire: Harvester Wheatsheaf; 1992.

  2. Humphrey NK. The social function of intellect. In Bateson, P.P.G. & Hinde, R.A. (eds). Growing point in Ethology. Cambridge University Press, 303-317.