L’invasione degli ctenofori cannibali

Un nuovo studio mostra come il cannibalismo possa essere, per alcuni invertebrati invasivi, un meccanismo che aiuta sia la sopravvivenza, in periodi di scarsità di nutrienti, che l’espansione in nuovi areali

Il cannibalismo è stato registrato tra oltre 1.500 specie animali, sia attuali che estinte: dai mammiferi tra cui esseri umani (Pikaia ne ha parlato qui e qui), ai rettili (Pikaia ne ha parlato qui), dai pesci agli invertebrati (Pikaia ne ha parlato qui e qui). Questo comportamento potrebbe essere considerato controproducente per una specie in termini di mantenimento di popolazioni vitali, tuttavia risulta essere una pratica conservata che ha origini molto antiche.

Un nuovo studio, pubblicato su Communications Biology, mostra che la prolifica noce di mare (Mnemiopsis leidyi), uno ctenoforo originario del Nord America che si è espanso anche sulle coste euroasiatiche, è in grado non solo di resistere a periodi di scarsità di risorse, ma anche di espandere il proprio areale grazie al consumo dei propri giovani, utilizzandoli come scorte di nutrienti attraverso inverni lunghi e privi di cibo. Poiché gli ctenofori fanno risalire la loro discendenza all’inizio di tutta la vita animale, così come la conosciamo, durante il periodo cambriano (525 milioni di anni fa, Pikaia ne ha parlato qui), il cannibalismo sembra essere una caratteristica comune e trasversale a tutto il regno animale (Pikaia ne ha parlato qui).

Il successo della noce di mare in termini di colonizzazione degli habitat è rimasto a lungo un mistero, soprattutto perché, invece di conservare le risorse prima dello svernamento, sembrava investire controproducentemente in massicce “fioriture” di prole incapaci però di sopravvivere a lunghi inverni privi di nutrienti. Si era ipotizzato che questi organismi fossero in grado di persistere negli ambienti invasi a causa della mancanza di predatori autoctoni anche se, sia questo sia le strategie di sopravvivenza di questa specie esotica, sono rimaste a lungo nebulose.

Lo studio, effettuato da un team internazionale di ricercatori della  University of Southern Denmark e del Max Planck Institute, si è concentrato sul ciclo di vita annuale delle popolazioni nella zona più settentrionale del Mar Baltico, al largo della Germania del nord. Gli autori hanno combinato uno studio di dinamiche di popolazione di Mnemiopsis leidyi con indagini sull’alimentazione e traccianti chimici mostrando, per la prima volta, che gli adulti stavano effettivamente consumando le fioriture della propria prole. Questa sinistra scoperta risulta un ottimo meccanismo di sopravvivenza: come un pratico serbatoio di nutrienti galleggianti che è in grado di durare oltre il collasso delle normali popolazioni di prede: il rilascio della prole fornisce agli adulti un’ulteriore finestra di crescita di 2-3 settimane che, ecologicamente, può fare la differenza tra la vita e la morte. Per i ricercatori, l’intera popolazione di ctenofori agisce come un unico organismo, con i gruppi più giovani che sostengono gli adulti nei periodi di stress da nutrienti. Negli ambienti in cui le gelatine a pettine sono invasive, risultano essere organismi di particolare successo soprattutto nei mari colpiti dal rapido riscaldamento, dalla pesca eccessiva e perturbazioni di origine antropica in generale, come il Mar Baltico (Pikaia ne ha parlato qui e qui). Affrontare questi problemi potrebbe potenzialmente ridurre le condizioni che risultano favorevoli per questi invasori gelatinosi e ripristinare l’equilibrio ecologico dei mari eurasiatici.

In un mondo in cui i movimenti di specie animali non autoctone contribuiscono a perturbare drasticamente interi ecosistemi e a causare danni anche economici, diventa sempre più importante comprendere le caratteristiche che permettono loro di colonizzare nuovi habitat.

Fonti
Jamileh Javidpour, Juan-Carlos Molinero, Eduardo Ramírez-Romero, Patrick Roberts, Thomas Larsen. Cannibalism makes invasive comb jelly, Mnemiopsis leidyi, resilient to unfavourable conditions. Communications Biology, 2020; 3 (1) DOI: 10.1038/s42003-020-0940-2

Immagine: U.S. Department of Health and Human Services / Public domain, via Wikimedia Commons