Lo strano caso degli storni di Shakespeare come esempio di econazionalismo americano

Si dice che sia stato un appassionato di Shakespeare a portare lo storno comune in America: ecco com’è nata la leggenda e come è stata usata

Attorno alla presenza dello storno (Sturnus vulgaris) in America e alla sua invasività sono state fatte diverse congetture. Una su tutte ha conquistato il cuore degli americani ed è tutt’ora utilizzata da qualcuno come esempio dei danni che può provocare l’ignoranza ecologica. Ma quanto c’è di vero? Hanno provato a capirlo Lauren Fugate (Carnegie Mellon University) e John MacNeill Miller (Allegheny College) in uno studio pubblicato su Environmental Humanities.

C’era una volta a New York
La versione ufficiale della storia, più volte revisionata nel tempo, è questa: il 6 Marzo 1890 Eugene Schieffelin decide di liberare uno stormo di storni al Central Park di New York. Il suo scopo era quello di far conoscere alla popolazione statunitense le specie citate nelle opere di Shakespeare.

La sua ossessione per il drammaturgo inglese e la sua scarsa conoscenza in materia ambientale sono stati ritenuti per molto tempo la causa principale della diffusione dello storno in America. Ancora oggi molte fonti utilizzano l’aneddoto di Schieffelin come spiegazione di questo fenomeno e come esempio dei danni che può causare “l’ignoranza dei ben intenzionati”.

Statua di William Shakespeare a Central Park. Crediti: Peter Roan via Flickr, Attribuzione – Non commerciale 2.0 Generico (CC BY-NC 2.0)

Utilizzando gli strumenti umanistici dell’analisi letteraria Fugate  e MacNeill spiegano il processo che ha portato questa narrazione a sostituire i fatti nella valutazione dell’impatto ecologico delle specie alloctone negli Stati Uniti (in particolare dello storno). Tutte le specie invasive sono alloctone, ma non tutte le specie alloctone sono invasive. Nel caso dello storno in America si può parlare di invasività, ma non vi sono dati a supporto del fatto che provochi danni annuali per centinaia di milioni di dollari all’agricoltura. Eppure, soprattutto per questa ragione, questo animale è stato a lungo oggetto di campagne di eradicazione violente, un atteggiamento che si è trascinato per buona parte del XX secolo e che tutt’ora trova sostenitori nei circoli ambientalisti e letterari.

Com’è dunque possibile che nella cultura americana sia così radicata la convinzione che gli storni vadano rimossi con ogni mezzo possibile? Com’è possibile che circolino così tante informazioni (infondate) riguardanti l’impatto devastante dello storno sulle specie autoctone nord americane e sull’economia agricola statunitense?

Le ragioni del successo
Nel 1895, Frank Michler Chapman, illustre ornitologo dell’American Museum of Natural History e autore del primo Manuale degli Uccelli del Nord America, conobbe Eugene Schieffelin, che in un articolo del 1925 arrivò a descrivere come “un fattore di devastazione ambientale fuorviato”. Con una piccola voce all’interno del manuale, Chapman fu il primo ad attribuire a Schieffelin la paternità dell’introduzione e del successo in America di questo passeriforme di origine eurasiatica.

Col tempo attorno a questo riferimento manualistico venne costruita una vera e propria finzione narrativa, più volte rivisitata, e Schieffelin passò alla storia come l’eccentrico signore con l’ossessione di Shakespeare (un particolare aggiunto quarant’anni dopo la sua morte) che ha introdotto gli storni in America e ne ha favorito l’acclimatamento.

L’aneddoto su Schieffelin trovò terreno fertile nelle ondate di xenofobia e razzismo largamente diffuse in America alla fine dell’800 e delle quali A. H. Estabrook, Madison Grant e Charles M. Goethe furono i massimi sostenitori. La morale dell’ignorante ben intenzionato permise di trasferire la paranoia per lo straniero dal piano sociale a quello ambientale, alimentando una forma di nativismo ambientalista che si tradusse nella legge delle specie introdotte: qualsiasi animale introdotto in America avrebbe “preso il sopravvento, spazzando via le popolazioni autoctone e provocando indicibili distruzioni agricole”.

Questa legge, ci ricordano gli autori, fu l’espressione di un realismo a muso duro in contrasto al “sentimentalismo” degli oppositori. Si avviò una vera e propria propaganda contro le specie alloctone che portò all’approvazione del Lacey Act nel 1900, una legge che vieta l’introduzione non regolamentata di specie non autoctone negli Stati Uniti, tra le quali lo storno. Una legge che persegue fini nobili (la tutela degli habitat e della biodiversità autoctoni) per ragioni sbagliate (xenofobia e razzismo).

Oggi sappiamo infatti che solo una frazione delle specie introdotte causa problemi significativi alle specie autoctone e agli ecosistemi: secondo una stima citata dagli autori sarebbero solo l’1%. È molto probabile che le specie introdotte siano molto più numerose di quanto sappiamo, perché spesso veniamo a conoscenza della loro esistenza solo se diventano molto dannose o se, come lo storno, sono specie visibili e rumorose.

Occorre ovviamente sempre evitare le cattive pratiche di introduzione, ma è sulle specie invasive che bisogna concertare eventuali sforzi di eradicazione. Tuttavia, non è sempre facile stabilire quanto siano invasive, soprattutto nel caso di specie opportuniste ed estremamente imprevedibili come lo storno. Lo spiega bene Natalie Hofmeister, biologa e genetista della Cornell University, quando afferma che “man mano che gli ecosistemi cambiano, cambia anche l’impatto dello storno su quegli ecosistemi”. Una specie inizialmente dannosa può dunque ridurre il suo impatto col passare del tempo. Le popolazioni di storno sembrano infatti crollate di numero negli ultimi decenni ed alcune specie autoctone hanno imparato a conviverci.

L’aneddoto folkloristico di Schieffelin divenne lo stampo di una narrazione che andò quasi del tutto a sostituire il metodo scientifico nella valutazione dell’impatto ambientale ed economico delle specie alloctone. Uno strumento di prevenzione secondo il quale una pianta o un animale sono in grado di rovesciare un intero ecosistema e che, affermano gli autori, è ancora oggi largamente diffuso tra gli ambientalisti. Questa vicenda è particolarmente rilevante perché mostra che una finzione ripetuta costantemente può arrivare a sostituire la realtà, provocando più danni di quanto non faccia realmente l’ignoranza dei ben intenzionati. Ma facciamo chiarezza sui fatti.

Chi fu davvero Eugene Schiefellin
Sull’esistenza di Eugene Schieffelin non vi sono dubbi, come sul fatto che abbia effettivamente giocato un ruolo nell’introduzione degli storni in America. Nel novembre 1877 presiedette un discorso tenuto all’American Acclimatization Society, durante il quale descrisse accuratamente gli sforzi che vennero fatti a livello nazionale per importare “uccelli che erano utili all’agricoltore e contribuivano alla bellezza dei boschi e campi”.

Le società di acclimatazione (American Acclimatization Society) furono un fenomeno internazionale reso popolare nel 1850 dal naturalista francese Isidore Geoffroy Saint-Hilaire (figlio del più celebre Etienne). Erano composte da giardinieri, scienziati, allevatori di animali e hobbisti “interessati a esplorare come gli organismi di una regione potessero adattarsi alle condizioni climatiche di un’altra”. Arrivato in Francia questo movimento cambiò volto e pure le frange più conservatrici all’interno del mondo anglosassone abbandonarono l’aspetto evoluzionistico delle società di acclimatazione per concentrarsi sull’aspetto estetico e conservazionistico. Si iniziò a importare specie alloctone a scopi ornamentali o per tentare di riparare ai danni che loro stesse avevano provocato.

Non ci sono dubbi. La vicenda degli storni di Schieffelin è un esempio di questa diffusissima pratica mentre la sua ossessione per Shakespeare, affermano gli autori, è semplicemente un falso storico, inventato di sana pianta da Edwin Way Teale, che nel suo libro “Days Without Time” (1948) associò per la prima volta il nome di Schieffelin a quello di Shakespeare, probabilmente, per la confusione che fece tra le Società di acclimatazione e i Shakespeare’s Club, che amavano adornarsi delle specie vegetali da lui menzionate.

Il birdwatching e la presenza stabile dello storno
Nonostante la storia attribuisca alla liberazione di Schieffelin la prima introduzione e la causa principale della stabilizzazione dello storno in America, numerosi sono gli avvistamenti precedenti a quella data, anche se è vero che i primi tentativi riusciti di nidificazione avvennero dopo il 1890. Le fonti raccolte da Edward Howe Forbush nel 1915 documentano due precedenti avvistamenti, uno nel Massachusetts risalente al 1876 e l’altro nel New Jersey nel 1880. Si trattava di stormi che con tutta probabilità erano già stabili sul territorio ma che passarono erroneamente alla storia come tentativi falliti di introdurre l’uccello.

Successivamente, con lo sviluppo scientifico in ambito biologico, fu possibile fare indagini accurate sulle possibili origini e la diversità genetica degli storni in America. Nel caso in cui vi sia stata un‘introduzione unica, come quella attribuita all’evento del 1890, si sarebbe potuto verificare nella popolazione di storni un particolare caso di deriva genetica conosciuto come “collo di bottiglia”, che comporta una progressiva riduzione della diversità genetica a causa delle dimensioni ridotte della popolazione. Nonostante alcune fonti poco attendibili lo confermino, un recente studio della Cornell Lab of Ornithology sembra smentire che vi sia stata un’unica introduzione, anche se precisa che non è facile stabilirlo con certezza, poiché in ogni caso la diversità genetica all’interno delle specie introdotte rimane sempre molto bassa.

Ci sono altri fattori che hanno reso difficile distinguere la verità dalla finzione, e non sono tutti di origine culturale. Per tutto il XIX secolo il birdwatching fu una pratica poco diffusa e l’identificazione degli uccelli avveniva mediante il confronto con le immagini e le descrizioni dei pochi e ingombranti manuali che non era quasi mai possibile portare sul campo. Non vi era inoltre un grande interesse per l’identificazione di specie come lo storno e tutto ciò che si aveva erano informazioni sporadiche da fonti difficili da accertare. Le cose cambiarono quando il passero domestico (Passer domesticus) venne introdotto per contrastare un’invasione di vermi sulla costa orientale.

Utilizzare specie alloctone per liberarsi di specie autoctone o alloctone particolarmente problematiche fu una tendenza molto diffusa per buona parte del XX secolo. Basti pensare ai danni che sono stati fatti in Australia, tutt’ora danneggiata da specie animali e vegetali invasive che è quasi impossibile eradicare. Il passero smise presto di nutrirsi dei vermi, si acclimatò e la popolazione esplose di numero iniziando a infastidire la popolazione americana con nidiate inattese e schiamazzi continui. I problemi legati all’introduzione di alcune specie accese l’interesse per l’identificazione degli uccelli e servì da viatico per la diffusione dell’odio verso tutte le specie alloctone (di cui ho parlato in precedenza).

Lo storno può essere utile agli agricoltori?
Le osservazioni nel manuale di Chapman furono seguite da numerosi scritti, tra i quali “The Economic Value of Birds to the State” del 1903, che alimentarono un econazionalismo ormai fuori controllo. Nel 1915, in seguito alle pressanti lamentele di agricoltori, cittadini e appassionati, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti d’America avviò una ricerca sugli effetti dello storno comune in Nord America. Dal confronto tra il contenuto dello stomaco degli storni e quello di altre specie alloctone è emerso che lo storno consuma molti più parassiti dannosi rispetto alle altre specie (comprese quelle native), che si nutrivano principalmente dei raccolti agricoli. La ricerca porta a concludere che lo storno possiede una capacità quasi illimitata di fare del bene” e che “il governo degli Stati Uniti dovrebbe garantirgli una protezione diffusa”.

La legge delle specie introdotte (qualsiasi animale introdotto in America avrebbe “preso il sopravvento, spazzando via le popolazioni autoctone e provocando indicibili distruzioni agricole”) impedì fino a quel momento di valutare senza pregiudizio il reale impatto di ogni singola specie sull’agricoltura, attribuendone la responsabilità unicamente alle specie alloctone. Fu proprio l’econazionalismo, sommato alle abitudini irrequiete e imprevedibili dello storno, a far sì che la sua invasività venisse gonfiata fuori misura.

La doppia morale degli storni di Shakespeare
Benché l’aneddoto di Schieffelin abbia perso credibilità nel corso del tempo, e benché la scienza ecologica si sia affrancata sempre di più dalla biologia dell’invasione che ha cavalcato le ondate di xenofobia e razzismo tra la fine dell’800 e per gran parte del ‘900, l’econazionalismo americano non sembra essersi spento, riflettono gli autori. I sostenitori contemporanei del nativismo tracciano una linea di confine netta con quelli del passato. A differenza loro, che fondavano le proprie convinzioni su operazioni retoriche e finzioni narrative, essi le fondano su dati scientifici ed economici “incontrovertibili”.

Il continuo riferimento agli storni di Shakespeare permette ai sostenitori dell’econazionalismo di affrancarsi dalle possibili associazioni tra la loro posizione in materia ambientale e le ingerenze politiche ed ideologiche delle quali soffre. Se la vicenda di Schieffelin è vera, l’ignoranza ben intenzionata di quell’uomo ossessionato da Shakespeare può essere utilizzata come scusa per giustificare il fatto che in passato vi sia stata un’ingerenza tra la biologia delle specie introdotte e gli interessi sociali e politici dei movimenti xenofobi e razzisti e che, di conseguenza, le debolezze di questo movimento culturale siano vittima di un uomo e non della mancanza di dati economici e scientifici.

Riferimenti:
Fugate, L., & Miller, J. M. (2021). Shakespeare’s StarlingsLiterary History and the Fictions of Invasiveness. Environmental Humanities, 13(2), 301–322. doi: 10.1215/22011919-9320167

Immagine in apertura: Mark Gunn via Flickr, Attribuzione 2.0 Generico (CC BY 2.0)