Digeriamo il latte grazie alle carestie e alle malattie del passato

latte

Un’innovativa analisi statistica che compara l’analisi di DNA antico con il variare del consumo di latte nel tempo ha dimostrato che la fame e le malattie zoonotiche sono alla base della diffusione e della selezione del gene responsabile della tolleranza al lattosio

Bere un bicchiere di latte alla mattina è un’attività routinaria per molte persone ma forse non molti sanno che dietro a questo semplice gesto si nasconde una lunga e affascinante storia di evoluzione e selezione naturale.

Una ricerca, condotta dall’Università di Bristol e recentemente pubblicata su Nature ha formulato una nuova e solida ipotesi sul motivo per cui circa un terzo della popolazione mondiale è in grado di bere il latte senza problemi.

L’uomo, infatti, non è sempre stato in grado di tollerare il latte: sono state almeno sei mutazioni nel nostro DNA che ci hanno permesso di cominciare a digerire il lattosio, lo zucchero presente nel latte che risulta particolarmente ostico per il nostro intestino.

Quando nasciamo siamo in grado di produrre un enzima che viene chiamato lattasi. Questa molecola è in grado di scindere il lattosio nelle sue due componenti di base: il galattosio e il glucosio, due zuccheri facilmente digeribili.

Solitamente, in seguito allo svezzamento la capacità di produrre la lattasi viene persa.

Le persone che presentano le mutazioni invece mantengono una buona produzione dell’enzima anche in età adulta restando tolleranti al latte e dando origine ad un fenomeno chiamato persistenza di lattasi.

Dal momento della sua comparsa tra il 4700 e il 4600 a.C., la variante del gene mutato che permette la tolleranza al lattosio si è diffusa in maniera molto rapida: in soli 4000 anni è passata dall’essere una caratteristica rara a riscontrarsi piuttosto frequentemente nel DNA delle popolazioni dell’anno 1000 a.C.

A lungo diversi gruppi di ricerca hanno provato a ipotizzare quali fattori potessero aver contribuito a una selezione naturale così forte.

Secondo le ipotesi più accreditate dalla comunità scientifica, ad esercitare una tale pressione sarebbero stati un insieme di fattori nutrizionali legati al consumo di latte. Bere latte permette un migliore assorbimento del calcio, fatto particolarmente importante nei paesi del Nord Europa in cui i prolungati periodi di buio comportano una carenza di vitamina D fondamentale per l’assorbimento del calcio. Nei paesi africani, del Medio Oriente e dell’Asia del sud il latte invece avrebbe rappresentato una fonte sicura e nutriente in periodi di carenza di acqua potabile e una dieta più varia rispetto ai soli derivati dell’agricoltura.

In ogni caso, secondo tutte queste ipotesi il consumo di latte è alla base della selezione della persistenza.

Per verificare questa idea sono stati analizzati settemila campioni di residui di grasso, risalenti a epoche diverse, presenti su più di tredicimila frammenti di ceramica provenienti da più di cinquecento diversi siti archeologici in cui si consumava latte, che sono stati confrontati con un database di quasi duemila DNA antichi di uomini preistorici asiatici ed europei. Tramite l’analisi dei DNA è stato possibile monitorare la presenza della variante del gene responsabile della persistenza in Europa. Esistono infatti anche altre varianti diffuse soprattutto in Africa che non sono state prese in considerazione nello studio.

Il consumo di latte e la persistenza di lattasi
Il primo passo è stato quello di mappare nello spazio e nel tempo i campioni di grasso. Gli studiosi hanno quindi osservato che il latte era largamente consumato in Europa già a partire da novemila anni fa e che questa abitudine si è diffusa inizialmente nel bacino mediterraneo per espandersi nel Neolitico fino al sud dell’Inghilterra. Il consumo però non è rimasto costante nel tempo ma ha avuto picchi e crolli in diverse regioni e in diversi periodi.

Localizzazione dei campioni di grasso mappati dallo studio e provenienti da 554 diversi siti archeologici (in grigio) Immagine: dalla pubblicazione

L’evoluzione spazio-temporale è stata confrontata con l’analisi dei DNA antichi tramite un nuovo approccio statistico messo a punto dai ricercatori per provare a capire come i cambiamenti nel tempo del consumo di latte potessero spiegare la selezione della tolleranza al lattosio.

Sorprendentemente, il modello ha evidenziato chiaramente che i pattern di consumo di latte nel tempo non forniscono una spiegazione per la forte selezione e rapida diffusione del gene della persistenza di lattasi

Ma se non è stata la variazione nel consumo di latte a guidare l’evoluzione di questo gene; quali sono stati allora i fattori che hanno realmente contribuito?

Il consumo di latte e la salute umana
Per provare a rispondere alla domanda, è stato analizzato il DNA moderno di trecentomila persone che in Inghilterra tra il 2006 e il 2010 avevano tra i trentasette e i settant’anni.

L’analisi ha evidenziato che tra i consumatori di latte non ci sono grandi differenze in termini di salute tra chi presenta la variante per la persistenza di lattasi e chi no.

Questa evidenza è supportata anche dal fatto che alcuni paesi, come ad esempio la Cina in cui la percentuale di persone tolleranti è molto bassa, negli ultimi anni hanno cominciato a importare e consumare il latte in grandi quantità.

Nell’intestino delle persone che non producono la lattasi, il lattosio viene fermentato dalla flora batterica ma nelle persone in buona salute questa situazione comporta solitamente la comparsa di sintomi leggeri come mal di pancia e flatulenza; è invece in condizioni di salute precarie dovute alla malnutrizione e in associazione con malattie diarroiche che può avere conseguenze gravi fino alla morte.

Da qui quindi l’intuizione: nei periodi di carestia e in presenza di malattie infettive, in particolare le zoonosi che erano diventate più frequenti in seguito all’aumento degli allevamenti negli insediamenti preistorici, il consumo di latte nelle persone prive di lattasi avrebbe avuto un esito ben più grave del solito.

Sarebbero state quindi la fame e l’esposizione alle malattie ad aumentare il tasso di mortalità tra le persone che non presentano persistenza di lattasi aumentando di conseguenza la presenza del gene mutato nella popolazione.

Inserendo le variazioni nel tempo della popolazione, come sintomo della malnutrizione, e della densità di popolazione negli insediamenti, come indicatore dell’esposizione ai microrganismi patogeni, nel modello statistico i ricercatori hanno trovato la conferma che cercavano: in tempi di carestia e di esposizione agli agenti infettivi il gene associato alla persistenza di lattasi era sottoposto a una selezione naturale molto forte.

La persistenza di lattasi è un esempio da manuale di selezione naturale nell’uomo ed è affascinante notare come ha fatto il professor Davey Smith, che “gli stessi fattori che ancora oggi influenzano la mortalità umana hanno guidato l’evoluzione di questo straordinario gene nel corso della preistoria”.

Riferimenti: Evershed, R.P., Davey Smith, G., Roffet-Salque, M. et al. Dairying, diseases and the evolution of lactase persistence in Europe. Nature 608, 336–345 (2022). https://doi.org/10.1038/s41586-022-05010-7

Immagine in apertura: Couleur da Pixabay