Piccoli denti, grande cervello: gli studi proseguono

Il genere Homo è l’unico tra i primati ad aver accompagnato il processo di encefalizzazione con una riduzione della dimensione dei denti post-canini

Rare eccezioni non mancano, come ad esempio in Homo florensiensis, ma la riduzione dei molari e premolari (post-canini) nel genere Homo parallelamente all’encefalizzazione è un dato di fatto. Una ricerca pubblicata su BioMed Research International ha analizzato le relazioni tra le dimensioni dei denti post-canini, la dieta assunta e le dimenzioni del cervello in diverse specie di primati estinti ed esistenti.
L’ominazione non presenta un’omogeneità di tendenza nel rapporto tra dimensioni dei denti post-canini e dimensioni cerebrali. Infatti, Austrlopithecus sarebbe stato caraterizzato da piccole variazioni nel corso delle sue trasformazioni nel tempo, sia nella dimensione dei denti che in quella cerebrale. Paranthropus -un genere probabilmente derivato da Australopithecus e che ha intrapreso una linea evolutiva indipendente- avrebbe invece subito un aumento delle dimensioni dentarie, mentre quelle corporee e cerebrali sarebbero rimaste sostanzialmente invariate nel tempo.
Inoltre la deduzione che la qualità della dieta nei primati possa essere intuita dalla dimensione dei denti non convince gli autori, i quali sostengono che in questo modo non vengono considerati altri fattori molto importanti, quali la durezza del dente o le tecniche di lavorazione del cibo prima dell’ingerimento, che nel caso di H. erectus avrebbe comportato un minor carico di massa ingerita a fronte di una miglior qualità nutrizionale.
Alla luce di queste considerazioni, gli autori si sono posti due obiettivi principali: valutare, in un campione di primati viventi composto da differenti taxa, se vi è un aumento del rapporto di accrescimento tra la dimensione dei denti poscanini e la qualità alimentare e analizzare il rapporto tra aumento del volume dei denti post-canini (molarizzazione) ed encefalizzazione in diversi taxa di primati umani e non umani.
Buona parte del corpo della ricerca si articola in più paragrafi dove si illustra la grande eterogeneità dei risultati, che comporta un’impossibilità da parte degli autori di trarre conclusioni precise e univoche. In linea generale però si conferma che il rapporto tra le dimensioni dei denti e la qualità alimentare è, almeno in parte, dipendente dalle dimensioni del cervello nei primati non umani. Infatti, la teoria dell’expensive-tissue, che sostiene che all’aumento dei costi energetici del cervello consegue un “sacrificio” in termini di diminuzione delle richieste energetiche da parte di altri tessuti, con conseguente perdita di massa e prestazioni, è applicabile solo al genere Homo.
Si asserisce inoltre che se la qualità della dieta, compresa quella caratterizzata da alimenti cucinati non cotti e non trattati a livello extraorale, è il tramite funzionale che avrebbe portato alle tendenze opposte di molarizzazione ed encefalizazione mostrate dai membri di Homo, è necessario trovare un meccanismo che opera in questo senso ed esclusivo per Homo.
Date queste premesse, gli autori assumono che i muscoli temporali (tra i principali muscoli masticatori) possano essere dimensionalmente correlati ai denti e che quindi il cambiamento della dimensione di tali muscoli possa comportare il cambiamento della dimensione dei denti post-canini. Come mai allora in Homo avviene il fenomeno inverso?
Come possibile spiegazione è stata proposta l’inattivazione del gene MYH16 che, a partire da 2,4 milioni di anni fa, avrebbe bloccato l’ipertrofia del muscolo temporale -effetto del gene nonché ostacolo per l’encefalizzazione- con conseguente impedimento dell’accrescimento dentale. Ipotesi che non è stata esente da scetticiscmi e critiche. 
La seconda ipotesi, complementare e non alternativa, proviene da una scoperta recente. E’ forse un caso, ma contemporaneamente alla disattivazione di MYH16, il gene SRGAP2, che codifica una proteina adibita al trasferimento dei neuroni immaturi dalle zone di formazione verso i siti finali, avrebbe ad un certo punto sintetizzato una versione abbreviata della stessa, capace di incrementare la velocità di trasferimento dei neuroni. In altre parole avrebbe permesso la formazione della nostra neocorteccia.
Ecco quindi che la genetica porta il suo contributo nel cercare le meccaniche (genetiche) del processo: la disattivazione del gene MYH16 che avrebbe provveduto a bloccare la crescita dei denti, e la contemporanea modifica del gene SRGAP2 che avrebbe provveduto all’encefalizzazione. 
Anatomia comparata, genetica e teorie speculative come quella della sopradescritta expensive tissue in tutte le sue varianti sono gli strumenti più utilizzati nello studio dell’encefalizzazione e del suo rapporto con l’evoluzione anatomica e fisiologica. Un argomento per il quale la ricerca si è sempre dimostrata molto attiva e che ha ancora molto su cui lavorare.
Ernesto Pozzoni
 
Immagine da Wikimedia Commons