Quando la scienza… arriva in giardino

Pubblicato da Codice Editore, il secondo libro di Renato Bruni dedicato alla straordinarietà delle piante

Quando pensiamo alla vita sul nostro pianeta, prima di tutto pensiamo a noi stessi e poi agli altri animali… dimenticandoci (quasi sempre!) delle piante. Se ci guardiamo attorno però ne vediamo ovunque, tanto che si stima che tra il 95 per cento e il 99,5 per cento della biomassa del pianeta sia composta da piante… per cui in realtà da un punto di vista quantitativo è la presenza animale (compresa la nostra) ad essere ininfluente.

Partendo da questa considerazione (e dal fatto che lavoro da anni con insetti che sulle piante vivono), ho progressivamente sviluppato la curiosità di capire qualche cosa di più su queste comuni e silenziose vicine di casa, cui avevo sempre dedicato poco attenzione. Questa curiosità mi ha portato prima a leggere “Erba Volant. Imparare l’innovazione dalle piante”  e ora a godermi la lettura di  “Le piante sono brutte bestie”, entrambi scritti da Renato Bruni per Codice Edizioni.

Perché interessarsi alle piante? Perché hanno dato soluzioni molto diverse ai problemi quotidiani, rispetto a quanto fatto dagli animali, in funzione della loro immobilità. “La condanna praticata da alcune tribù indiane del selvaggio West <scrive Renato Bruni>, consiste nel seppellire un malcapitato in verticale, lasciando la sola testa a spuntare dal terreno in balia del sole cocente, delle formiche, delle mosche, dei corvi (…). Non potendo scappare o spostarsi né difendersi in alcun modo, la morte dello sventurato era solo questione di tempo”. Vi pare una tortura crudele? Questo rappresenta la quotidianità delle piante e spiega perché le piante sono così diverse da noi e forse ci risultano più simili ad abbellimenti che a viventi. In merito a quest’ultimo punto, “non aiuta certo il fatto che nei testi di biologia solo il 15% sia dedicato ai vegetali. Lo stesso termine vegetare (…) equivale a una vita non degna di essere vissuta, la peggior iattura esistenziale per un essere umano”.

Nonostante il loro “vegetare”, le piante sono pronte a riconquistare ogni centimetro della città che lasciamo temporaneamente inutilizzato, forse perché ha ragione il nonno dell’Autore… “le piante sono brutte bestie, non le capisci se non le osservi da vicino, chinandoti, abbassando il capo e guardando verso terra”. Oppure forse perché le piante non sono quelle inermi e semplici creature che per tempo abbiamo maltrattato sui nostri balconi.

Ne sono ottimi esempi i numerosi recenti studi di fisiologi vegetali e biologi, quali Stefano Mancuso. Ad esempio, per una pianta definire il momento in cui germogliare è di estrema importanza: se lo fa troppo presto può essere danneggiata da condizioni invernali ancora troppo dure; se lo fa tardi, può trovarsi svantaggiata nella competizione per le risorse con altre piante più precoci. George Bassel e colleghi hanno da poco dimostrato (e pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale PNAS) che il compromesso tra questi due rischi opposti è controllato da un piccolo gruppo di cellule che operano in un modo che per certi versi appare analogo a quello di un cervello. Inoltre, come da tempo suggerito da Mancuso, le piante comunicano, reagiscono allo stress, usano sofisticate strategie per risolvere problemi complessi, arrivano a memorizzare e a imparare.

Senza entrare in meccanismi complessi, “Le piante sono brutte bestie” aiuta il lettore ad apprezzare le tante strategie messe in atto dalle piante per riprodursi, per comunicare tra loro e con gli insetti impollinatori. Tra i diversi esempi citati, il mio preferito riguarda indubbiamente la geosmina. Questa molecola, prodotta da funghi filamentosi e da cianobatteri presenti nel suolo e che nel suolo viene rilasciata con la loro morte, è la principale componente di quello che potremmo definire l’odore di terra bagnata, poiché questa molecola diffonde nell’aria per effetto della pioggia battente sul terreno secco. La geosmina non significa però presenza di acqua solo per noi, tanto che alcuni cactus ornamentali ingannano gli insetti producendone una variante (la deidrogeosmina) che attrae gli insetti che arrivano cercando acqua, trovandosi invece ad offrire un servizio come impollinatori “senza neanche il ringraziamento di una bibita fresca”.

Proprio in funzione della loro comune presenza nelle nostre città, le piante potrebbero essere nostre alleate anche nella tutela della biodiversità animale. Talvolta siamo portati a vivere gli spazi naturali come fossero i nostri giardini, che a loro volta diventano “estensioni delle nostre stanze domestiche, in cui imporre il nostro ritmo sociale, la nostra estetica e i nostri bisogni culturalmente indotti di fioriture, potature e germinazioni; ad agire da padroni anziché da commensali”. I giardini possono però essere oggi una preziosa risorsa per la conservazione della biodiversità sebbene possano offrire rifugio solo ad un piccola parte della fauna. “Tra le farfalle esiste una precisa tipologia avvantaggiata dai giardini urbani attuali <scrive Renato Bruni> ed è quella delle generaliste più mobili, che possono usare i giardini come isole frammentate anche distanti tra loro nutrendosi su molti fiori differenti e non rifornendoli presso un limitato novero di piante. Le specie più fragili come le specialiste a corto raggio, invece, faticano a saltare da un’isola all’altra se le distanze sono eccessive: avrebbero bisogno di aree di sosta ovvero di un network più capillare”. Questo significa che in un momento in cui si parla spesso di smart city, potremmo pensare che anche la distribuzione del verde rispecchi non solamente i nostri gusti estetici, ma che le aree verdi delle città e i giardini vengano “intesi come le stazioni di sosta e cambio cavalli nelle vecchie rotte: la loro distanza coincideva con la stanchezza degli animali da soma”. Oggi potremmo pensare di costruire una sorta di verde mosaico a pezzi ravvicinati utili a sostenere la biodiversità urbana.

“Il giardino è un luogo di resilienza ambientale nel paesaggio urbano, un rifugio contro il logorio della vita moderna sia per uomini sia per piante o animali”, ma per esserlo la distribuzione non può essere lasciata al caso. Per assurdo, alcuni spazi potrebbero essere lasciati senza alcuna gestione non per assenza di risorse o di volontà, ma per ospitare quelle che ormai siamo abituati a considerare erbacce, ma che possono costituire un gradito ed utile buffet per molti insetti. Vi sembra inattuabile?

Una piccola cittadina dell’Iowa, chiamata Cedar Rapids, ha creato un vero e proprio paradiso per le api. La città, 130mila abitanti, si è posta un obiettivo: 1000 acri di fiori e piante, disponibili per puro piacere per gli impollinatori. Campi, ma anche campi da golf, zone vicino allo stadio o l’aeroporto, fossati, qualunque zona coltivabile, saranno seminati per far crescere antiche erbe e fiori in modo da favorire la riproduzione delle api “native” in quelle zone. I vantaggi non saranno però per le sole api, tanto che il progetto è svolto in collaborazione con il Monarch Research Project, che ha lo scopo di salvare e ripristinare le popolazioni di farfalle monarca.

Negli ultimi 20 anni, rivela una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Ecological Indicators, il numero di farfalle urbane è diminuito del 69% contro un calo (per altro già significativo) del 45% nelle aree rurali. Colpa, ipotizzano gli scienziati, dei cambiamenti climatici: in città si sentono più che altrove a causa delle cosiddette isole di calore che fanno aumentare moltissimo la temperatura nelle zone cementificate. Ma anche della progressiva sparizione di aree verdi nei centri urbani, in particolare di quelle incolte, e della diffusione sempre maggiore dei pesticidi nei giardini cittadini. Le città insomma non hanno più gli ecosistemi necessari a ospitare questi insetti… ma potrebbero tornare ad averli come cerca di fare il progetto «Impollina-mi», realizzato in collaborazione con Comune di Milano, Cooperativa Eliante, Università dell’Insubria Varese e Fondazione Cariplo. In questo caso quindi amministrazioni pubbliche e privati cittadini possono cooperare per ripensare le piante presenti in città per favorire ad esempio la presenza e la sopravvivenza di numerose specie di. “Io per esempio <scrive Gustavo Gandini, professore dell’Università di Milano> ho messo ruta e finocchio selvatico, di cui si nutre il bruco di macaone (che mangia solo quelle). Vanno bene anche ortica e cardo, di cui si cibano le larve di vanessa. E poi lavanda, achillea, verbena e fiordaliso, che forniscono il nettare agli insetti adulti.”

Su suggerimento di mia moglie, da poco ho letto il bellissimo volume intitolato “Il mondo segreto delle piante”, pubblicato in Italia da Editoriale Scienza, che inizia così: “Se credete che una pianta sia soltanto un ornamento verde, immobile e silenzioso, questo è il libro che fa per voi… ma è una lettura perfetta anche se siete convinti del contrario!”. Potrebbe essere un invito alla lettura perfetto anche per questo bellissimo libro di Renato Bruni e sono certo che, anche voi come me, inizierete a prestare più attenzione alle piante e alle loro sofisticate strategie per resistere al logorio della vita moderna.. e perché no.. anche per rispettarle di più come viventi.

Sarà forse per il senso di colpa provato verso le piante leggendo questo libro, che mi sono ricordato di un altro libro dal titolo “Mai dire bonsai: quello che le piante direbbero se potessero parlare” scritto da Eugenio Melotti (per Sironi Editore):  
“Cara signora Lia, se le scrivo questa lettera è solo per fame. Vivo con lei regalandole splendidi limoni per i suoi tè e i suoi piatti di pesce, ma mi tiene in un vaso e non mi fertilizza. Le mie foglie non sono più verdi come una volta e se vado avanti così durerò ancora poco. […] 
La prego, mi dia del concime: lei ogni giorno sfama i suoi cani con bocconcini prelibati, ma loro non profumano come me e al posto di limoni succosi le fanno ben altri regali.
Con affetto, il suo limone”.

L’Autore dedica questa recensione alla memoria di “tutte le piante defunte per incuria o inesperienza”.