Quante razze? Tante quanti i colori di un arcobaleno

Se esistessero le razze umane, allora i colori di un arcobaleno sarebbero sei. O sette, come sosteneva Newton. Allora l’azzurro non sarebbe un colore, così come non lo sarebbe l’ocra, il marrone, l’acquamarina, il viola, il verde oliva, per non parlare poi del lilla, del fucsia né, di fatto, della maggior parte dei colori che ci circondano. Se le razze umane esistessero, o fossero esistite, quindi, ciascun umano non apparterrebbe a nessuna di esse in particolare. Fortunatamente la realtà è più semplice di così, perché a quanto pare le razze umane non sono mai esistite

Cominciamo con l’allargare il campo: l’uso della parola razza è normalmente associato a specie animali selezionate artificialmente (cani, gatti, cavalli, pecore, capre, mucche, pollame ecc…). In natura, infatti, le varie popolazioni di individui appartenenti ad una stessa specie tendono a mescolarsi in maniera proporzionale alla loro prossimità geografica, ostacolate in genere solo da barriere di tipo geografico o riproduttivo (la ridotta fertilità della prole). Al contrario, le specie allevate sono tenute artificialmente in isolamento al fine di selezionarne proprietà fisiche (produttive o estetiche) caratterizzanti ed il più possibile omogenee all’interno del gruppo stesso. Questo isolamento riproduttivo è quindi una forzatura dettata da esigenze di rendimento economico.

Per questo motivo siamo tutti in grado di distinguere un cane Setter da un Pastore Tedesco, e ciascuno di essi da un Mastino. Per questa distinzione ci basiamo esclusivamente sull’aspetto fisico, e poco importa se il DNA (ovvero tutto quello che serve a far funzionare il macchinario “cane”) è quasi identico fra le varie razze (chi saprebbe dire quale fra le coppie Mastino-Setter, Mastino-Pastore Tedesco e Setter-Pastore Tedesco sia più affine geneticamente?). Noi decidiamo, arbitrariamente, di focalizzarci sulle caratteristiche fenotipiche distintive.

E per la nostra specie? Analizzando il DNA di tutte le popolazioni umane e integrando questa informazione con i resti fossili dei nostri antenati è possibile concludere che la nostra specie sia emersa in Africa circa 300.000 anni fa (Schebusch et al. 2017, Skoglund et al. 2017), evolutasi da gruppi proto-umani preesistenti, e che si sia espansa in Eurasia a partire da 70.000 anni fa (Soares et al. 2012). In questa espansione gli adattamenti evolutivi sviluppati nei millenni di permanenza africana hanno subito dei cambiamenti, dettati dalle sfide poste dai nuovi ambienti incontrati in Eurasia. Dalla fine dell’ultima glaciazione (18.000 anni fa) ad oggi l’Eurasia è stata teatro di innumerevoli migrazioni e rimescolamenti, molti dei quali hanno coinvolto anche le popolazioni dell’Africa Settentrionale ed Orientale. Per questo motivo, ad oggi, il classico modello per spiegare la diversità biologica delle varie popolazioni umane è chiamato “isolamento da distanza” (Ramachandran et al. 2005). Questo fenomeno è proprio del modo con cui avvengono le interazioni fra gruppi umani (più si è vicini geograficamente e più è facile “innamorarsi”) ed ha una importante implicazione: di fatto possiamo pensare all’umanità come ad un’unica popolazione che si mescola in funzione della propria distanza geografica, formando quindi una scala (o gradiente) di “somiglianze” che va dal più simile al meno simile, mano a mano che ci si allontana da un qualsiasi punto del globo.

Sappiamo quindi che ciascun essere umano non è altro che un puntino all’interno di una scala globale di diversità, e che la maggior parte dei tratti fisici che abbiano una base biologica/genetica si sono evoluti naturalmente come risposta ad uno stimolo ambientale, o culturale, o ad entrambe le cose. In altre parole, nessuno (almeno fino ad ora) ci ha “allevati” col preciso obiettivo di sviluppare l’aspetto che abbiamo. Ma allora perché è così facile riconoscere un italiano da un cinese o da un nigeriano, anche semplicemente da una fototessera, ovvero al netto di attributi culturali quali la lingua ed il modo di vestirsi?

Semplice, perché è un test truccato (o facilitato, che dir si voglia). Nell’ottica del gradiente geografico di diversità, questo test si prende la libertà di “campionare” individui in tre punti molto distanti fra loro (Italia, Cina, Nigeria), inserendo così una discontinuità artificiale. Cosa sarebbe successo, invece, se il test avesse previsto di riconoscere un italiano, un turco e un armeno? Inoltre siamo sicuri che i criteri che usiamo per “etichettare” gli individui siano condivisibili da tutti e, soprattutto, non siano anch’essi mediati culturalmente (come il forte peso che diamo al colore della pelle)? Il cinese e il nigeriano di prima, agli occhi di un bambino, potrebbero per esempio somigliarsi per la forma schiacciata del naso ed essere quindi visti come un gruppo unico…

Tratti diversi hanno infatti ciascuno una storia evolutiva ed una diffusione diversa. Per ciascuno di questi tratti possiamo pensare quindi ad un particolare “arcobaleno”, ovvero ad una distribuzione continua di diversità. Tutti sappiamo come è fatto un arcobaleno ed è molto facile essere d’accordo su quale sua sezione sia “blu” e quale “rossa”. Ma saremmo altrettanto d’accordo sul decidere quando il rosso vira ad arancione, e quando l’arancione vira al giallo?

Analogamente, la “vistosa” differenza fra un italiano e un cinese può essere scomposta in migliaia di sotto-differenze (o sotto-somiglianze) fra coppie di individui che potremmo incontrare in una camminata virtuale da Roma a Pechino. Queste sotto-differenze sono gli incrementi di diversità che seguono l’incremento di distanza geografica e che costituiscono, per ciascun tratto, un gradiente (o un arcobaleno).

Per questo alcuni individui sono facilmente identificabili per un tratto (perché sono “nel rosso pieno”) e meno per altri (perché sono “fra l’arancione e il giallo”). Questa sovrapposizione di tratti marcati e tratti meno marcati genera la biodiversità umana, che rende ciascuno di noi più simile a chi ci sta vicino e meno simile a chi ci sta lontano, in maniera progressiva.

La scomposizione del nostro aspetto fisico in “tratti fenotipici” aiuta anche ad intuire come si siano formati i vari colori dell’arcobaleno (un’ultima volta, coraggio, poi abbandoniamo questa similitudine). Per ciascuna caratteristica fisica, infatti, sono disponibili così tante varianti che uno schema semplicistico del tipo “la popolazione pura A si mescola con la popolazione pura B per creare la popolazione ibrida C” non può funzionare. Che cosa è una popolazione pura? C’è mai stata un’epoca in cui i tratti fisici erano perfettamente suddivisi nelle varie popolazioni, come i semi in un mazzo di carte nuovo? La storia delle migrazioni umane antiche e recenti ci dice che non è così; che i tratti fisici che vediamo oggi si sono originati, ciascuno, in un tempo ed un luogo diverso (in popolazioni che già erano mescolate per altri tratti) e da lì hanno cominciato la loro diffusione attraverso lo spazio.

Proviamo allora a ritentare con occhi nuovi il test di discriminazione “razziale”, questa volta però camminando mentalmente da Roma a Pechino (o da Roma a Lagos): quando posso essere sicuro di aver abbandonato la “razza bianca”? Quando comincia la “razza gialla”? Quando noto i primi occhi “a mandorla”? Quando posso dire che la persona che mi è accanto è “nera”? Queste domande, a prima vista scontate, perdono di senso se invece di limitarci a confrontare estremi all’interno di un gradiente, teniamo d’occhio la nostra specie, nel suo insieme. Diceva Bruce Chatwin che “chi parla della disumanità degli umani non ha mai camminato abbastanza lontano” (Chatwin 1987).

Ps: questo excursus dovrebbe avervi convinto dell’insussistenza biologica del concetto di razza riferito ai vari gruppi umani. Sta però a voi intravedere il messaggio generale e non precipitarsi a trovare il prossimo pretesto (magari le preferenze calcistiche?) per discriminare chi proviene da una cultura diversa dalla propria. Ma che cosa si intende per cultura?

Luca Pagani
Ricercatore di Antropologia Molecolare, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Padova – La versione estesa di questo contributo appare sul catalogo della mostra “Imago Animi – Volti dal passato” che si tiene a Cles, Trento, dal 24 Marzo al 24 Giugno 2018

Da La Mela di Newton

Riferimenti Bibliografici:
-Bruce Chatwin, 1987, The Songlines  https://www.amazon.it/Songlines-Bruce-Ch…) (citazione originale: ““When people start talking of man’s inhumanity to man, it means they haven’t actually walked far enough.” )
-Ramachandran et al. 2005  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1624…)
-Soares et al. 2012  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2209…)
-Schlebusch et al. 2017 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28971970)
-Skoglund et al. 2017  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2893…)