Quel virus non è più lo stesso

Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare “Luigi Luca Cavalli Sforza” , descrive su l’Almanacco della Scienza del CNR le strategie messe in pratica dai virus: possiamo considerarli immortali?

I virus sono antichi compagni di viaggio dell’umanità, basti pensare che il morbillo circola nella nostra specie da almeno 10.000 anni. Ma altri agenti virali come l’Herpes o l’Epatite B, affondano le loro origini nella notte dei tempi, avendo eletto l’essere umano come ospite già centinaia di migliaia di anni fa. In effetti, i virus sono parassiti di tutti gli esseri viventi probabilmente fin dalla comparsa sulla scena della vita delle prime cellule, oltre tre miliardi di anni fa.

Dunque, se i virus esistono da quando esiste la vita possiamo pensare che siano immortali? Per rispondere a questa domanda, conviene prima intendersi sul significato di questa parola. Letteralmente, immortale significa “che non è soggetto alla morte”. Ma quanto vive un virus? In realtà una singola particella virale ha una vita estremamente breve: fuori dall’organismo ospite può resistere per qualche ora o qualche giorno, a seconda del virus e delle condizioni ambientali. Ma non appena penetra in una cellula, il virus “muore”, ovvero perde la sua identità di singola particella, disgregando gli involucri esterni e rilasciando all’interno della cellula infetta il suo materiale genetico. Le informazioni contenute nei suoi geni vengono lette dai macchinari cellulari che costruiscono nuove particelle virali, i “figli” per così dire del virus originario. Quindi, se ci atteniamo alla definizione letterale, i virus sono tutt’altro che immortali.

Ma in senso più ampio, “immortale” si riferisce anche a qualcosa che che non avrà mai fine, ovvero destinato a essere sempre presente. Se guardiamo ai virus attraverso le lenti dell’evoluzione questa seconda definizione sembrerebbe riflettere molto da vicino la loro straordinaria longevità. È importante fare una precisazione: destinati a essere sempre presenti probabilmente sì, il fatto che esistano da miliardi di anni lo confermerebbe. Ma questo non significa che siano sempre uguali. Anzi, è proprio la loro grande capacità di mutare e quindi di adattarsi a nuovi ospiti, che li rende per così dire “immortali”.

Ad esempio, tutti i virus che oggi infettano l’essere umano ci sono arrivati da altre specie animali, attraverso il cosiddetto “salto di specie” o, usando un termine anglosassone, “spillover”. La pandemia da SarS-CoV-2 è un tipico, e tragico, esempio di questo fenomeno: un virus dei pipistrelli a un certo punto è diventato in grado di infettare l’essere umano. Mentre nell’animale serbatoio questo virus non causa nessun danno, spesso il nuovo ospite ne viene devastato, come purtroppo abbiamo imparato a nostre spese in questi anni di pandemia.

Non è stato il primo caso: le pandemie influenzali che si sono susseguite negli ultimi cento anni, dalla Spagnola del 1918 all’Asiatica nel 1957, a quella detta di Hong Kong del 1968 hanno causato centinaia di milioni di contagi e, complessivamente, decine di milioni di vittime. Ma in questi ultimi decenni numerosi virus emergenti hanno fatto la loro comparsa nelle comunità umane, senza fortunatamente dare origine a pandemie: Ebola, Hendra, Nipah, Zika, Mers, SarS-CoV-1 sono nomi che abbiamo imparato a conoscere. Il salto di specie, ovvero il passaggio di un virus dal suo ospite naturale a uno nuovo, è la conseguenza di due fattori: la mutazione genetica del virus e la frequenza di contatti tra l’animale serbatoio e il nuovo ospite.

Scienziati al microscopio

Le mutazioni, ovvero le alterazioni delle istruzioni contenute nei geni, sono un fenomeno naturale, casuale e inevitabile. Tutti gli organismi viventi accumulano mutazioni, i virus, per le loro caratteristiche, un po’ più velocemente di altri. Da una singola particella virale che penetra in una cellula possono essere generati decine di migliaia di nuovi virus. Ciascuno deve contenere una copia delle istruzioni genetiche del virus originario, che quindi devono essere ricopiate decine di migliaia di volte. Le macchine molecolari deputate a produrre queste copie purtroppo non sono molto fedeli e commettono spesso degli errori di copiatura: le mutazioni. Se cambia l’istruzione di un gene, la proteina che verrà prodotto a partire da quel gene avrà caratteristiche diverse dalla versione originale. 

Se pensiamo che un singolo individuo infetto da un virus come SarS-CoV-2 produce nel suo organismo ogni giorno miliardi di virus, di cui uno su diecimila circa avrà una o più mutazioni, capiamo subito come tra questa enorme variabilità possano emergere virus in grado di colonizzare nuovi organismi grazie alle alterazioni delle loro proteine. Ma, ovviamente, il salto di specie richiede la presenza del nuovo ospite ed è qui che entriamo in gioco noi. L’essere umano è una specie altamente invasiva. Siamo tanti e sfruttiamo sempre di più l’ambiente per ricavare le risorse necessarie. Facendolo, alteriamo l’ecosistema con l’agricoltura intensiva, l’urbanizzazione, l’inquinamento. Invadendo nuovi ambienti mettiamo nuove specie (noi stessi e gli animali che alleviamo ad esempio) a contatto con animali selvatici, serbatoi potenziali di nuovi virus. A questo punto è solo una questione di tempo: l’elevata capacità di mutare dei virus combinata con l’alta frequenza di contatti tra specie serbatoio e nuovi ospiti crea le condizioni perfette per il salto di specie.

Quindi, i virus non sono immortali in senso stretto, ma certamente la loro straordinaria capacità evolutiva fa sì che siano estremamente ben attrezzati ad adattarsi ai mutamenti dell’ambiente in cui si trovano trovando sempre nuovi ospiti da colonizzare e, così facendo, perpetuandosi nel cambiamento.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato l’11 maggio 2022 sull’Almanacco della Scienza del CNR. L’uscita era dedicata al tema “immortalità“.