Sapiens, Neanderthal e altre scimmie: cosa può dirci il microbioma orale sull’evoluzione?

microbioma scimmia

Il nostro microbioma orale assomiglia molto a quello dei Neanderthal, ed entrambi si distinguono da quelli di scimpanzé, gorilla e scimmie urlatrici. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista PNAS, che presenta anche il microbioma più antico mai analizzato grazie a un recente fossile neandertaliano

Nel 1683, lo scienziato autodidatta Antoni van Leeuwenhoek riportò alla Royal Society le osservazioni che aveva fatto al microscopio su un oggetto di studio piuttosto insolito: la sua placca dentale. Fu il primo a scoprire che la nostra bocca è abitata, secondo le sue parole, da “animaletti molto piccoli, che si muovono graziosamente.” La popolazione di microorganismi del nostro cavo orale, detta microbiota, è la seconda più abbondante nel nostro corpo dopo quella intestinale; ancora oggi, non abbiamo finito di studiarla.

Ricercatori di 41 istituzioni hanno collaborato a uno studio che ha scavato nel microbioma orale (ovvero il patrimonio genetico del microbiota orale) dell’essere umano e dei suoi parenti più stretti, a partire dai Neanderthal. Lo studio è stato pubblicato su PNAS del 18 maggio e ha come primo autore James A. Fellows Yates, del dipartimento di archeogenetica del Max Planck Institute for the Sciences of Human History. Fellows Yates e colleghi hanno cercato di far luce sui cambiamenti nel tempo che il microbioma orale degli ominidi ha subìto in relazione alla nostra evoluzione, un po’ come già fatto per la flora intestinale.

Avanzi di storia
I ricercatori hanno esaminato il materiale contenuto nel tartaro, che si forma per calcificazione della placca dentale. La placca è un esempio di biofilm: un tappeto di batteri adesi l’uno all’altro e a una superficie (in questo caso, i denti), inclusi in una matrice da essi prodotta. In quanto registro del microbioma, non è la prima volta che il tartaro è usato per indagare la flora orale di uomini del passato. Ne abbiamo anche ricavato informazioni sulla dieta dei Neanderthal, e sull’uso che facevano di erbe medicinali.

Fellows Yates e colleghi, dal canto loro, non si sono certo risparmiati: hanno analizzato i genomi contenuti in 109 campioni di tartaro da umani moderni, Neanderthal, gorilla, scimpanzé e scimmie urlatrici. Tra questi c’era il microbioma orale più vecchio a oggi ricostruito, da un molare di Neanderthal trovato nella Pešturina Cave, in Serbia (i primi resti di Neanderthal trovati due anni fa in questo Stato) che si stima abbia circa 102 mila anni. A questi dati hanno aggiunto quelli di altri studi, per un totale di 124 microbiomi.

Simili ma diversi
Il microbiota è composto da specie variabili, che dipendono dallo stile di vita e dalle condizioni dell’individuo, e da specie del “core” (letteralmente, nucleo), che sono quelle predominanti nella maggior parte degli individui sani. Il microbiota orale è risultato in generale più stabile rispetto a quello intestinale, cioè meno dipendente da fattori come la dieta. È proprio sul core del microbioma orale che si è concentrato il gruppo di ricerca, studiandone somiglianze e differenze tra le diverse specie di ominidi e tra queste e scimmie urlatrici.

Gli studiosi hanno individuato 10 generi di batteri comuni non solo agli ominidi inclusi (Homo sapiens e neanderthalensis, gorilla e scimpanzé) ma anche alle scimmie urlatrici. Questa parte del microbioma, quindi, sarebbe presente da almeno 40 milioni di anni, periodo in cui si suppone che gli antenati delle scimmie urlatrici abbiano colonizzato il Sudamerica separandosi dai nostri antenati africani (portando alla distinzione tra scimmie del Nuovo Mondo e scimmie del Vecchio Mondo, ovvero Platyrrhini e Catarrhini). All’infuori di questi 10 generi, tuttavia, gli studiosi hanno trovato grandi differenze tra i microbiomi del genere Homo e quelli dei primati non umani.

Il discorso cambia se parliamo dei Neanderthal. I loro microbiomi orali erano molto simili ai nostri. Dal momento che la flora orale si acquisisce soprattutto dai genitori, è del tutto sensato collegare questa somiglianza agli incroci che sappiamo essere avvenuti tra le nostre specie. Soprattutto, in entrambe sono stati trovati molti geni batterici legati all’elaborazione dei carboidrati, cosa che distingue nettamente gli Homo dai primati non umani; la gran parte deriva da specie di Streptococcus capaci di sfruttare per la propria nutrizione l’amido ingerito dall’ospite. Secondo Fellows Yates e colleghi, tali popolazioni streptococciche si sarebbero evolute con l’aumento di cibi ricchi di amido nella dieta degli Homo. Visto che anche i Neanderthal ne portano le tracce, è possibile che l’amido sia arrivato nell’alimentazione umana sorprendentemente presto; è importante perché potrebbe aver fornito l’energia necessaria all’evoluzione di cervelli sempre più grandi.

Il microbiota orale è coinvolto nella patogenesi di carie, parodontite e infiammazioni a distanza; eppure, molti aspetti che lo riguardano sono ancora sconosciuti. A conferma di questo, gli autori sottolineano nello studio che diversi membri del microbioma di Homo non hanno ancora un nome di specie, e a tre manca anche la designazione di genere. Questo lavoro ci dà nuovi, importanti indizi sulla nostra storia evolutiva, e su quella degli “animaletti” che portiamo con noi.

Riferimenti: Fellows Yates, James A., et al. “The evolution and changing ecology of the African hominid oral microbiome.” Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 118, no. 20, 18 May. 2021, p. e2021655118, doi:10.1073/pnas.2021655118.

Immagine: Alexas_Fotos da Pixabay