Speciazione, evoluzione, nicchia ecologica

Recensione di “Tradurre un classico della scienza. Traduzioni e ritraduzioni dell’Origin of Species di Charles Darwin in Francia, Italia e Spagna”

A proposito di Ana Pano Alamán e Fabio Regattin, Tradurre un classico della scienza. Traduzioni e ritraduzioni dell’Origin of Species di Charles Darwin in Francia, Italia e Spagna, Bologna, Bononia University Press, 2015

Chi affida la recensione di un saggio di traduzione a un naturalista conosce i rischi che corre: i lettori, e con loro la redazione, si preparino a trovare riferimenti a un mondo che più che di parole e pagine è fatto di carne e di legno, di sangue e di linfa.

Questo è particolarmente vero quando il libro da recensire si presta per natura ai parallelismi. È il caso di questo pregevole lavoro. Nel leggerlo ho scoperto che le traduzioni, come le specie, si evolvono. E in natura come nell’editoria, a quanto pare, l’evoluzione non prende un’unica direzione ma esplora una moltitudine di percorsi, fino a produrre «infinite forme bellissime». Forse sembrerà un parallelismo azzardato. Per questo vi invito a rileggere quelle parole: «infinite forme bellissime». Si tratta della formulazione italiana più diffusa dell’espressione endless forms most beautiful che chiude le sei edizioni dell’Origin. È citata in questa forma praticamente ovunque, dai titoli di altri libri alle conferenze scientifiche, fino ai magneti per frigorifero. Ma se cercate di risalire all’autrice o autore italiano scoprirete che questa traduzione non si trova in nessuna «Origine delle specie». Ecco come è stato reso in alcune edizioni italiane:

«infinite forme, vieppiù belle» (Giovanni Canestrini, Torino, Utet, 1875);

«innumerevoli forme, bellissime» (Luciana Fratini, Torino, Einaudi 1959);

«infinite forme estremamente belle» (Celso Balducci, Roma, Newton Compton, 1974);

«innumerevoli forme bellissime» (Giuliano Pancaldi, Milano, Rizzoli, 2009).

I biologi chiamano processi come questo casi di «speciazione per ibridazione»: due o più specie si incrociano dando origine a una nuova, diversa e indipendente dalle progenitrici, e spesso di maggiore successo. Se questo fenomeno non esistesse non avremmo i nostri cereali coltivati né gran parte delle altre piante domestiche, e a quanto pare nemmeno una delle più belle frasi che siano mai state scritte sulla natura.

È in parte proprio a partire da queste premesse evoluzionistiche che Ana Pano Alamán e Fabio Regattin affrontano la miriade di traduzioni ed edizioni dell’Origin pubblicate dal 1859 al 2013 in Italia, Francia e Spagna. Il saggio mette ordine nel groviglio storico-editoriale dei volumi analizzando, per ciascun paese, prima la storia della ricezione della teoria darwiniana, poi la cronologia delle traduzioni e la biografia di traduttori e prefatori, e infine le differenze nell’interpretazione e resa del testo.

L’avvincente resoconto sulla storia dell’opera in patria e all’estero, così come è raccontata da Pano Alamán e Regattin, ha generato in chi scrive una serie di domande.

Darwin considerava il suo libro un progetto terminato?

L’Origin of Species non è un solo testo, ma almeno sei. Negli oltre tredici anni che separano la prima edizione dalla sesta Darwin ritoccò, integrò, riscrisse parti del suo capolavoro, in un’opera di costante aggiornamento che rispondeva in parte alle critiche mosse alla teoria, in parte alla volontà dell’autore di essere in primo luogo un comunicatore efficace e accessibile (Darwin chiese e ottenne dal suo editore di dimezzare il prezzo della sesta edizione rispetto a quello della quinta per permetterne la diffusione tra la classe operaia).

Dopo la sesta e ultima edizione il testo ha davvero smesso di evolversi? O ha continuato a svilupparsi, a diventare qualcos’altro man mano che i biologi approfondivano la conoscenza del mondo che esso descrive?

Forse nessun classico resta fermo a prendere polvere, ma questo potrebbe essere ancora più vero per l’Origin, un libro che ha avuto bisogno di oltre 60 anni di avanzamento di studi sulla genetica per essere compreso appieno.

Il lavoro dei due autori aggiunge un tassello cruciale a questa riflessione. I traduttori hanno un ruolo di mediazione tra gli autori e il pubblico, un ruolo su cui si ragiona, si scrive e si traduce da molto tempo. Ma da qualche decina di anni si può notare anche un interesse crescente verso il concetto di «ritraduzione», e in particolare di come le ritraduzioni si pongano rispetto alle traduzioni che le hanno precedute (si veda per esempio il n. 4 di «Palimpsestes», 1990, la rivista del Centre de recherches en traduction et stylistique comparée de l’anglais et du français, interamente dedicato a Retraduire). Senza entrare nei dettagli, che in gran parte ignoro, Pano Alamán e Regattin sembrano particolarmente interessati ad affrontare le ritraduzioni secondo la visione di Anthony Pym (Method in Translation History, Manchester, St. Jerome, 1998) che distingue tra ritraduzioni passive e attive. Nelle parole degli autori, secondo Pym le ritraduzioni attive «dialogano con le precedenti e […] tentano in generale di posizionarsi diversamente rispetto ad esse». Una ritraduzione può cioè nascere dalla volontà di creare un testo che corregga la traduzione precedente, o la riavvicini al testo sorgente.

Il volume dedica grande attenzione a questi aspetti e a cercare di capire quali tra le diverse ritraduzioni abbiano tenuto conto e si siano poste in antagonismo alle traduzioni che le hanno precedute. Ed è talvolta una storia degna di una rivista scandalistica. La parte dedicata alla Spagna, in particolare, è una carrellata di ritraduzioni nate per criticare una traduttrice per poi rivelarsi basate proprio su quella versione, di traduzioni legittime e traduzioni plagiate, di traduzioni che durano per decenni e traduzioni-meteora.

Ma più di ogni altra interpretazione emerge da questo saggio la storia di un’opera che vede decine di ritraduzioni soprattutto per necessità. The Origin of Species cambia ruolo nel tempo, si trova a occupare nicchie ecologiche diverse nel corso dei suoi 150 anni di vita. I primi traduttori si trovano davanti un testo scientifico e comunicativo, che presenta ai lettori una nuova teoria. I traduttori dei decenni che seguono dovranno invece confrontarsi con un testo filosofico, che ispira interpretazioni e travisamenti politici e sociali; con un testo storico, un classico della cultura scientifica necessario per capire il paradigma fondamentale della biologia; e infine con un testo letterario, un libro linguisticamente curato e degno di attenzione filologica oltre che di ristampe anastatiche.

Nel complesso, Tradurre un classico della scienza è scritto ottimamente: si può leggere come un testo divulgativo, soprattutto nei segmenti italiani e francesi e nelle parti generali, ed è consigliabile anche a un pubblico di appassionati di scienza e non solo a chi si occupa di traduzione. Testi come questo possono aiutare i non addetti ai lavori a capire in cosa consista l’atto del tradurre, e a spingerli a guardare, di tanto in tanto, il verso del frontespizio.

Paolo Cocco, da Tradurre