Sulle rotte della domesticazione

Ricostruendo come le piante coltivate si sono adattate in passato a variazioni climatiche e migrazioni possiamo capire come costruire le piante del futuro

I cambiamenti climatici sono la principale sfida che dovremo affrontare nei prossimi decenni ed è sempre più importante cercare di capire non solo come divenire più resilienti, ma anche come le piante che coltiviamo potranno adattarsi ai nuovi regimi di temperatura e piovosità. Grazie al sequenziamento del genoma della maggior parte delle piante coltivate e ai dati archeobotanici è oggi possibile ricostruire come le piante da noi coltivate si sono adattate nel passato, sia a variazioni climatiche che allo spostamento in altri continenti. Questi dati ci potranno, quindi, permettere di attuare una vera e propria pianificazione razionale delle piante del futuro, così da portare in campo varietà in grado di mantenere rese elevate e livelli ottimali di micronutrienti. Ma come analizzarli?

Una risposta decisamente interessante a questo quesito è stata pubblicata dal gruppo di ricerca coordinato dal genetista vegetale Roberto Papa (Università Politecnica delle Marche) nell’articolo intitolato “Adaptation to novel environments during crop diversification” pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Current Opinion in Plant Biology. Come sottolineato dai ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche, i cambiamenti climatici avranno effetti rilevanti non solo sulla fisiologia della pianta, ma anche sulla disponibilità di acqua, sulla fertilità del suolo e sulla diffusione di nuovi parassiti e patogeni. La celerità con cui questi cambiamenti stanno avvenendo rappresenta un ulteriore elemento di difficoltà, tanto che per molte piante selvatiche i tassi di estinzione sono già decisamente elevati. Come è stato, infatti, mostrato da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology and Evolution, l’estinzione delle piante sta avvenendo 500 volte più velocemente di quanto ci si aspetterebbe in risposta ai normali cicli che le portano a estinguersi in assenza di attività umane. Nel complesso, i tassi di estinzione osservati per le piante sono circa il doppio rispetto a quelli di uccelli, mammiferi e anfibi messi insieme.

I numerosi ecotipi noti per molte piante coltivate possono rappresentare una opportunità unica per correlare specifiche sequenze presenti nel loro genoma e proprietà degli ecosistemi cui si sono adattate. Possiamo, ad esempio, paragonare ecotipi presenti in ambienti simili, ma in aree differenti del pianeta, così da cercare soluzioni molecolari comuni e capire quali porzioni del loro genoma sono il risultato di una evoluzione convergente.

Come suggerito dagli Autori, piante come l’orzo e il mais sono coltivate da oltre 10.000 anni in condizioni agro-climatiche molto differenti e lo stesso vale per molti legumi, tra cui il fagiolo comune. Per queste piante “la fase di post-domesticazione dai loro centri di origine (…) verso un insieme eterogeneo di agro-ecosistemi ha favorito la divergenza sia genetica che fenotipica tra le diverse forme domesticate”. Questo processo di adattamento parallelo alla domesticazione può oggi essere studiato con l’aiuto della genomica comparativa per capire l’evoluzione adattativa di queste varietà fornendo dati preziosi da applicare per rispondere alle variazioni climatiche in atto. L’analisi non è semplice come potrebbe sembrare, perché servirà distinguere le variazioni dovute alla selezione operata dall’uomo durante le fasi di domesticazione e post-domesticazione da quelle legate agli effetti ambientali, ma numerose pubblicazioni scientifiche che riguardano sia legumi che cereali ci permettono di essere ottimisti. Grazie a questo approccio sono state, infatti, identificate mutazioni associate alla tolleranza agli stress idrici, all’aumento di salinità del suolo e ad altri stress abiotici, oltre che nei tempi di fioritura e nella risposta al freddo.

Molte piante e/o varietà coltivate sono inoltre divenute poliploidi e questi studi ci permettono di fare anche interessanti correlazioni tra poliploidia e plasticità suggerendo meccanismi di adattamento che potrebbero essere applicati anche ad altri viventi al di fuori del regno vegetale. Un ulteriore aspetto di grande interesse suggerito dall’articolo del gruppo coordinato da Roberto Papa è legato a quello che lo storico Alfred W. Crosby definì lo scambio colombiano, cioè lo scambio di specie animali e vegetali (e non solo!) tra Vecchio e Nuovo Mondo. Molte specie vegetali, tra cui patate, pomodori, fagioli e mais, vennero spostate nello stesso periodo verso l’Europa dove iniziarono a essere coltivate in ambienti diversi. In questo caso, quindi, possiamo usare la genetica per ricostruire l’adattamento di queste specie ai nuovi ambienti “europei” identificando mutazioni specifiche per le singole varietà rispetto alle quelle rimaste nel Nuovo Mondo.

“Nelle nostre cellule – scrive il genetista e divulgatore Adam Rutherford nel suo splendido Breve storia di chiunque sia mai vissuto (Bollati Boringhieri, 2017) – portiamo un poema epico”.

Sapendolo leggere, il DNA ci racconta una saga fatta di nascite, morti, malattie, guerre, carestie e migrazioni. L’articolo di Papa e colleghi ci ricorda che nel DNA possiamo rileggere la storia di antichi adattamenti e questi potrebbero essere utili per non smarrirci in una fase di grandi cambiamenti e trovare la strada giusta per pensare le piante del futuro.

Riferimenti: Cortinovis G., Di Vittori V., Bellucci E., Bitocchi E., Papa R. (2020) Adaptation to novel environments during crop diversification. Current Opinion in Plant Biology 56: 203-217.

Immagine: Wikimedia