Toccare con mano l’evoluzione

Un laboratorio didattico basato su un modello della dinamica variazione-selezione sperimenta una variazione dalla modalità della riproduzione grafica alla modellazione in creta per consentire a partecipanti non vedenti di utilizzare il tatto

Ormai molti anni fa, all’università di Milano Bicocca, durante una lezione del corso di epistemologia, Telmo Pievani accennò, a una esperienza didattica fatta negli USA: il processo della selezione naturale veniva proposto attraverso un modello in cui gli studenti erano invitati a riprodurre con il disegno la sagoma di un pesce; i disegni prodotti inevitabilmente mostravano una gamma di variazione attorno alla forma del modello; chi conduceva l’esperienza sceglieva il disegno che presentava una determinata caratteristica in modo più estremo e la proponeva come modello per una seconda riproduzione e così via. Il risultato era, per quella caratteristica, una modificazione statistica della popolazione dei disegni progressiva attraverso le successive “generazioni”, in perfetta analogia con la “selezione artificiale”.

Sarebbe stato più logico e facile cercare la fonte per poter riprodurre il procedimento, ma incamerai l’idea e mi diedi da fare per realizzarla in proprio (scelta più dispendiosa e difficile e, proprio per questo, per me più interessante e “divertente”). Nacque il laboratorio “pesci & padelle” (che è presentato su Pikaia qui). Da allora l’ho riproposto decine di volte in situazioni diverse, dalle scuole all’università, ai musei, perfino in un parco, a partecipanti dagli 8 ai 90 anni.

Spesso il feedback del laboratorio ha indotto a piccole variazioni della “sceneggiatura” alla ricerca di una sempre maggiore efficacia “epistemologica”, ovvero nella corrispondenza tra la pratica del modello e le idee evoluzionistiche, di cui vuole essere modello e che vuole contribuire a costruire nell’interazione.

L’ultima variazione introdotta nasce in un contesto particolarmente significativo dal punto di vista educativo: si tratta di una classe di scuola primaria, la quinta 2016-2017 della “Rodari” di Poggetto (I.C. di San Pietro in Casale (BO), in cui è inserita una bambina non vedente.

Mi era stato chiesto un intervento sulle tematiche evolutive e, come sempre quando si tratta di partecipanti non esperti, avevo proposto alcuni laboratori di base, sull’antenato comune e la specie, sulla diversità e, appunto, sul processo di selezione: “pesci & padelle” dunque.

Le mie prime esperienze di insegnante di scuola media si erano svolte con gruppi di ragazzi sordi inseriti in una scuola statale in un’epoca in cui i diversamente abili a scuola non erano stati ancora accolti per legge. È stata per me una esperienza formativa fondamentale, che si è radicata non solo nella mia professionalità di docente e formatore, ma anche nel mio modo di affrontare la problematica della comunicazione scientifica. Con i sordi avevo imparato a riconoscere l’errore fondamentale che facciamo noi insegnanti e divulgatori, qualcosa che rappresenta un paradosso in un rapporto tra docente e discente, tra esperto e non esperto: dare per scontato che i nostri interlocutori sappiano già quello che invece abbiamo il ruolo di insegnare o comunicare loro. Avviene continuamente: “proiettiamo” la nostra conoscenza sull’altro, che automaticamente immaginiamo simile a noi.

Ora, nella comunicazione è inevitabile dare per acquisito qualcosa di comune tra chi parla e chi ascolta, se non altro la lingua in cui avviene la comunicazione e i riferimenti alla realtà in cui tutti viviamo. Se per la seconda gli scienziati almeno si rendono conto che la loro realtà di laboratorio, di ricerca, non coincide con la quotidianità di tutti, per il linguaggio non c’è uguale consapevolezza.

Oggi le insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria sono abituate ad avere davanti bambini che non sono di madrelingua italiana e si fanno carico di questo problema. Nel 1973 non era così e insegnare a dei sordi faceva sbattere duramente contro il muro di una lingua non condivisa, neppure ai livelli più bassi della comunicazione quotidiana sul mondo della quotidianità. E le soluzioni erano tutte da inventare (allora non si insegnava la “lingua dei segni”, che oggi accompagna come traduzione simultanea anche i telegiornali).

Il mio tirocinio con i sordi dunque me lo porto dietro come costitutivo della mia professionalità, mentre invece gli incontri personali con i non-vedenti sono stati piuttosto rari e sono avvenuti attraverso un linguaggio evoluto e perfino ricco di termini riferiti alla visione (i non-vedenti li usano più spesso di noi vedenti, abituati come siamo al fatto che la conoscenza passi prevalentemente attraverso il canale visivo).

È stato per questo probabilmente che con un po’ di ritardo ho realizzato che in “pesci & padelle” la partecipazione diretta avviene disegnando più volte un modello osservato e, nella discussione, osservando continuamente le caratteristiche grafiche, di forma visiva, dei disegni prodotti.

La bambina non vedente era inserita fin dall’inizio in quella classe, in cui le insegnanti e le educatrici avevano dedicato un grande impegno di professionalità, oltre che di creatività e di “energia relazionale”, perché tutta la classe imparasse a praticare, e inventare anche, modalità di esperienza e comunicazione che potessero includere lei in esperienze di conoscenza in un contesto socializzato. Ero io a non essere inserito in questo contesto con la mia proposta. È stato l’incrocio del mio disagio con l’esperienza delle insegnanti a far nascere l’idea di realizzare le riproduzioni modellandole con la creta, anziché disegnarle sulla carta, in modo che anche la bambina non vedente potesse percepire la forma attraverso il tatto.

È stato necessario studiare le modalità tecniche, ad esempio si è deciso di “semplificare”, ma in modo esplicito, la riproduzione, trascurando una dimensione (dichiarando come non pertinenti le variazioni di spessore) ed eliminando le pinne. Ciò che andava riprodotto quindi non era un “pesce”, ma una figura, al massimo la “sagoma di” un pesce, ma questo avviene anche nella prima parte della versione disegnata di “pesci & padelle”. Quando nell’ultima parte si passa a ragionare su che cosa avviene in situazioni naturali e quindi si parla di pesci “veri”, la bambina poteva manipolare la riproduzione di un pesce, tridimensionale e realistica, come in altre occasioni in cui a scuola si era parlato di animali (in quella scuola poi, e soprattutto nel suo giardino, ci sono animali “veri”, che si possono toccare, per il progetto “Alleviamo gli animali a scuola”).

Come ci ha insegnato Darwin, sta nella specificità della natura umana la socialità, ovvero il costruire condizioni che permettono a tutti i soggetti della popolazione, compresi quelli che in altre specie perirebbero nella competizione per la sopravvivenza, di partecipare alla evoluzione della specie, che per gli umani è anche e soprattutto culturale. A questa dinamica partecipa anche la storia di un piccolissimo frammento di cultura come un laboratorio didattico, che attraverso una variazione nata da una relazione contingente con l’ambiente, può aver dato origine a una “ramificazione evolutiva”.