Violazione delle leggi di Mendel?

Una specie di colpo di scena. Anni di successi nel campo della genetica e poi ecco che improvvisamente un piccolo indizio costringe a rimettere in discussione una legge fondamentale della genetica. Certo, questo è il carattere della scienza: per lungo tempo un’idea è accettata da tutti, ma poi accade qualcosa che spinge a riflettere su ciò che era ovvio. Però,

Una specie di colpo di scena.
Anni di successi nel campo della genetica e poi ecco che improvvisamente un piccolo indizio costringe a rimettere in discussione una legge fondamentale della genetica. Certo, questo è il carattere della scienza: per lungo tempo un’idea è accettata da tutti, ma poi accade qualcosa che spinge a riflettere su ciò che era ovvio. Però, quanto si legge in un recente numero della rivista Nature colpisce non solo i biologi, ma perfino chi ha una lontana reminiscenza dei manuali di biologia del liceo. Insomma, quattro ricercatori americani, guidati da Robert Pruitt della Purdue University (Indiana), hanno presentato un'eccezione alle leggi di Mendel, cioè alle regole della trasmissione dei caratteri ereditari. Una storia che parte da lontano. E il cui epilogo si deve al caso. Circa tre anni fa, Pruitt e il suo gruppo avevano iniziato a lavorare su un nuovo progetto. Niente di straordinario, un obiettivo modesto: individuare e studiare i geni deputati al controllo delle sostanze che rivestono l'epidermide delle piante. Come modello per gli esperimenti, avevano scelto l'Arabidopsis thaliana, una piccola erbaccia annuale che cresce ovunque, dall'Artico all'Equatore e che, avendo un genoma di dimensioni modeste, è largamente usata nella ricerca. Il primo passo era studiare un gene chiamato Hothead, letteralmente "Testa calda", la cui mutazione in entrambe le copie dei genipresenti in una pianta (una di origine materna e una di origine paterna) provoca la fusione, facilmente riconoscibile, dei petali dei fiori. Nel corso degli esperimenti, da piante con una mutazione solo in una delle due copie del gene Hothead i ricercatori avevano ottenuto, come aspettato, un quarto della prole con entrambe le copie del gene mutate, cioè tutte piante con fiori anomali.

E fin qui tutto bene. Ma quando avevano autofecondato queste piante anormali, ecco che un buon 10 per cento appariva normale. In altri termini, riappariva un gene non mutato che non era presente nei genitori, bensì nella generazione dei "nonni". Un fatto decisamente negato dalle leggi dell'ereditarietà mendeliane, che affermano che dall'autoimpollinazione di piante con entrambi i geni mutati non possono nascere piante normali. Fu uno shock. Ma per la rivista Nature non c’erano dubbi: quel lavoro era pubblicabile. Il motivo? Stando a quanto uno dei biologi di Nature ha riferito al New York Yimes, nelle numerose discussioni durante le conferenze scientifiche tutte le critiche si sono dimostrate infondate. E così, adesso che il lavoro è sotto gli occhi di tutti, si aspetta solo che altri gruppi di ricerca confermino i risultati. Ma è difficile resistere alla tentazione di discuterne. " Se ne potrebbe concludere", dice Telmo Pievani, filosofo della biologia dell'Università di Milano - Bicocca, " che le leggi di Mendel, pur continuando a essere valide, ammettono un'eccezione. Perché bisogna tenere presente che la biologia è una scienza evoluzionistica e le sue leggi hanno un carattere di probabilità, raramente sono universali". Che ci sia un errore nell’esperimento è la prima cosa che balza in mente. Ma secondo Sergio Lanteri, docente di genetica agraria all'Università di Torino, " la metodologia è corretta e non c’è nulla che faccia pensare a errori sperimentali quali la contaminazione di polline da fonti estranee o inquinamento con altri semi. E bisogna ammettere che il fatto non può essere giustificato sulla base di meccanismi genetici noti ".

E allora ecco il giallo: quale altro meccanismo spiega un fenomeno così imprevisto? Per adesso sono ammesse solo congetture. Ma agli occhi di molti biologi la spiegazione meno azzardata è proprio quella proposta su Nature da Pruitt e il suo team. E si tratta di un’altra sorpresa. Perché quello che finora si sapeva è che, quando un gene muta, resta mutato e viene trasmesso di generazione in generazione. Un destino a cui non si può sfuggire. Ma ora i ricercatori congetturano che in certe circostanze particolari molecole di Rna (un composto molto simile al Dna che partecipa direttamente alla sintesi delle proteine) possano correggere un gene mutato e riportarlo a essere tale e quale a com’era nel Dna degli antenati. Come spiega Lanteri, "Rna a doppia elica, cioè in una forma stabile, situato nel citoplasma delle cellule potrebbe essere conservato e replicato attraverso generazioni . Quando geni che devono svolgere funzioni chiave sono mutati, e determinano condizioni di stress per l'organismo, allora questo Rna potrebbe, agendo nella fase riproduttiva, favorire la nascita di una pianta con il gene normale che era presente in una generazione precedente". Questa ipotesi non sarebbe inverosimile. «In effetti», dice Rosa Rao, docente di genetica agraria al «Federico II» di Napoli, «ci sono forti indizi che il ruolo dell'Rna sia molto più esteso di quanto si riteneva prima. Per esempio, negli ultimi anni è emerso che gioca un ruolo nella regolazione genica. Cioè, esistono molecole di Rna che accendono o spengono determinati geni».

Il fatto più sconvolgente è che nulla esclude che questo meccanismo possa riguardare altre piante e perfino il mondo animale e l'uomo. In questo caso si potrebbe anche pensare ad applicazioni nel campo dell'ingegneria genetica:«Potremmo utilizzare l'Rna per modificare l'informazione contenuta nel Dna, grazie alla sua capacità di indurre mutazioni in geni specifici. Non solo. Si potrebbe anche usarlo come "correttore" nelle piante contro alcuni tipi di mutazioni geniche» aggiunge Rao. Andrea Ballabio, genetista di fama mondiale, aggiunge:« Sedavvero venisse confermata questa ipotesi, mi meraviglierei che questemolecole di Rna non siano mai state identificate finora. E comunque non sarebbe l’unica eccezione, per esempio l’associazione genica, cioè il fatto che a volte un gruppo di geni vicini lungo il filamento vengono trasmessi come un tutt’uno è già un’eccezione. Tuttavia quella presentata da Pruitt avrebbe implicazioni profondissime: sarebbe lecito immaginare di usare l'Rna come strumento di terapia, andando oltre l'attuale tecnica di Interference che consiste nello spegnere un gene impedendo all'Rna messaggero di compiere la propria funzione nella sintesi di proteine; si potrebbe introdurre un Rna capace di indurre modifiche ad hoc in geni specifici".

Ma le implicazioni di una tale scoperta sarebbero anche altre. Il fatto che organismi siano capaci di restaurare una variante genetica ancestrale in condizioni di necessità è un fatto nuovo, non preso abbastanza in considerazione dall’attuale teoria dell'evoluzione darwiniana. Secondo gli evoluzionisti moderni, particolari mutazioni geniche possono aiutare gli organismi ad adattarsi meglio all’ambiente: gli individui in possesso di mutazioni favorevoli sopravvivono e si riproducono, tramandando i propri geni. Ma l’ipotesi di Pruitt potrebbe aggiungere un elemento nuovo. Perché per adattarsi, individui potrebbero addirittura riparare i propri geni, restaurando l’informazione genetica degli antenati. Secondo Pievani si tratta di «un fatto che non mette in discussione l’attuale teoria dell’evoluzione. Semplicemente, significherebbe che una parte della natura possiede meccanismi ulteriori in grado di favorire l’adattamento degli organismi». Ma c’è di più. “Sarebbe un altro motivo», dice Pievani, «per interpretare la teoria dell’evoluzione in senso pluralistico, cioè come una teoria che si fonda sulle salde fondamenta gettate da Darwin, ma che si arricchisce sempre di nuovi fattori che, tutti insieme, contribuiscono a spiegare l’evoluzione delle forme viventi».