I pionieri: gli orsi polari che sopravvivono con meno ghiaccio marino

orsi polari senza ghiaccio

Un paper emozionante su Science racconta la vita quotidiana di una popolazione di orsi polari che, sotto i 64° N, vive in condizioni simili a quelle previste per fine secolo nell’Alto Artico

Due secoli fa, una coppia di orsi polari ha lasciato la costa della Groenlandia sopra i 64° Nord per trasferirsi a sud. Come se avesse previsto il riscaldamento globale e che conveniva adattarsi a una banchisa sempre più striminzita e cedevole.

E ha messo su famiglia.

In un paper emozionante, su Science Kristin Laidre et al. ne raccontano la vita quotidiana negli ultimi 37 anni in cui sono stati osservati da lontano e dal 2011 monitorati da vicino. Descrivono il loro territorio di montagne alte più di 2000 metri che li separano dagli altri orsi, stretti fiumi di ghiaccio che sulla riva si trasformano in poltiglia con in mezzo blocchi gelati d’acqua dolce, un “melange raro nell’Artico”. I loro spostamenti, il ritorno a nuoto nel proprio fiordo dopo settimane di caccia, la stazza delle femmine…

Ne conoscono la dieta, la salute, la demografia, le distanze percorse, l’ambiente, il tempo che fa, la corrente e i venti che ne limitano il territorio, la longevità, il numero dei figli – più maschi che femmine perché controllano le nascite – e il loro tasso di sopravvivenza nonostante i cacciatori, sempre più rari dagli anni ’80…

Gergo tecnico a parte, sembra un documentario della BBC.

In base ai campioni e ai dati raccolti a terra, dai collari o dai satelliti, confrontano tutte le caratteristiche possibili con quelle delle popolazioni rimaste sopra i 64° Nord. I meridionali fanno viaggi più brevi, d’altronde nel melange ci sono foche tutto l’anno. Si riproducono di meno e malgrado la consanguineità la loro popolazione è aumentata e si è stabilizzata.

Un “potenziale immigrante” dall’Alaska. Foto: Alan Wilson, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Ma la scoperta vera e propria viene dalla genetica. Certe mutazioni contraddistinguono i meridionali (qualche tradimento sembra esserci stato con delle vicine, dall’altro lato di capo Farewell) e consentono di datarne l’arrivo all’inizio dell’Ottocento. Sono stati avvistati per la prima volta nel 1830, quando erano già parecchi.

E certi alleli indicano la provenienza dei due pionieri. Nei genomi interamente sequenziati delle 19 sottospecie di orsi polari, gli autori identificano:

i potenziali immigranti: uno più prossimo alle sottopopolazioni del mare meridionale di Beaufort e del mare dei Chukchi in Alaska e uno più prossino a quelle del nord-est della Groenlandia.

Non sanno quanti siano oggi, probabilmente più di un centinaio. Di sicuro sono una sottopopolazione diversa, e chiedono che l’IUCN la consideri come la ventesima degli orsi polari:

Mantenere il lignaggio distintivo del sud-est della Groenlandia è necessario per preservare la diversità genetica della specie.

Tanto più necessario che la specie deve adattarsi al riscaldamento globale. Nella perspective, oltre a suggerire nuove ricerche Elizabeth Peacock chiede che l’Accordo internazionale per la conservazione degli orsi polari protegga quelli del sud-est della Groenlandia.

(Ora che gli altri paesi del Consiglio artico hanno bloccato le collaborazioni scientifiche con la Russia, sembra difficile.)

In fondo scrive:

Dedico questo articolo ai biologi degli orsi polari [come lei] che hanno perso la vita nel raccogliere alcuni dei campioni globali: Malcolm Ramsay (1949–2000), Stuart Innes (1953–2000), John Bevins (1955–1990), George Menkens (1957–1990), e Markus Dyck (1966–2021).

Nella news, Jack Tamsea si concentra sull’adattamento degli orsi ai cambiamenti climatici e di Kristin Laidre e dei suoi colleghi a un ambiente ostile perfino agli elicotteri “heavy duty”:

  • Per assicurarsi che rientrassero alla base di ricerca sulla costa, a 4 ore di distanza, negli habitat degli orsi gli scienziati avevano accumulato carburante in punti strategici, con anni di anticipo.

Agg. 20/6: cf. anche Bianca Nogrady, Nature

Se non siete abbonati a Science e vi restano articoli gratuiti (quelli sul covid sono tuttora in open access), su un tema affine segnalo:

  • Petrolio in mare, quanto è troppo? di Ira Leifer. Commenta la nuova stima di Dong et al. in “Chronic oiling in global oceans” che quasi raddoppia il contributo “antropogenico” all’inquinamento tra il 2014 e il 2019, facendolo passare dal 50% al 94% di quello globale.

Riferimenti:
Laidre, K. L., Supple, M. A., Born, E. W., Regehr, E. V., Wiig, Ø., Ugarte, F., …Shapiro, B. (2022). Glacial ice supports a distinct and undocumented polar bear subpopulation persisting in late 21st-century sea-ice conditions. Science, 376(6599), 1333–1338. doi: 10.1126/science.abk2793

Immagine in apertura: di Susanne Miller, U.S. Fish and Wildlife Service

Pubblicato originariamente sul blog Ocasapiens il 18 giugno 2022