Dalla comunicazione al linguaggio

6425

Uscito quasi indenne dalle “politischen Zwierickeiten” – che potremmo fin troppo benevolmente tradurre con l’espressione “difficoltà politiche” – causategli dalle origini ebree della nonna materna, il professore Karl Ritter von Frisch stava per incappare in una scoperta sbalorditiva che avrebbe contribuito a porre le basi per la nascita dell’etologia scientifica moderna. Mentre le forze alleate consumavano la disfatta del Terzo […]


Uscito quasi indenne dalle “politischen Zwierickeiten” – che potremmo fin troppo benevolmente tradurre con l’espressione “difficoltà politiche” – causategli dalle origini ebree della nonna materna, il professore Karl Ritter von Frisch stava per incappare in una scoperta sbalorditiva che avrebbe contribuito a porre le basi per la nascita dell’etologia scientifica moderna. Mentre le forze alleate consumavano la disfatta del Terzo Reich tedesco, von Frisch studiava con meticolosa attenzione il comportamento delle api in relazione alla scoperta del cibo.

E un fatto sorprendente si presentò ai suoi occhi: rientrando dal sito di foraggiamento, le api esibivano movenze circolari del tutto simili a una danza che contenevano informazioni accurate circa l’iter da percorrere per raggiungere il cibo. Se la meta distava oltre 50 metri, gli abituali indizi impiegati dalle bottinatrici per agevolare le compagne nella localizzazione (il nettare rigurgitato per essere da loro assaggiato, i ferormoni liberati nella zona di foraggiamento e tracce di natura simile) si arricchivano di informazioni aggiuntive e ben più complesse. In questo caso, le api attuavano una particolare danza tracciando una traiettoria ad 8 reclinato e scodinzolando occasionalmente l’addome. La danza mostrava di attenersi a una sorta di “grammatica” in cui differenti segnali venivano impiegati per informare sulla direzione, distanza, posizione e sulla quantità di cibo presente nel luogo. Cosa ancora più singolare, le api erano in grado di correggere le angolazioni della danza per adattarle al mutamento direzionale del sole, fornendo in tal modo indicazioni dettagliate anche in caso di cambiamento delle condizioni. A conferma dell’idea che le informazioni contenute nella danza costituissero lo strumento di cui le api si servivano per localizzare la fonte di cibo, Michelsen e colleghi (1989) idearono un dispositivo meccanico dalle sembianze di ape controllato da un computer. La danza simulata dal congegno artificiale veicolava informazioni circa direzione e distanza verso cui volare: le foraggiatrici seguivano prontamente gli indizi forniti, confermando risolutivamente che le intuizioni del professore von Frisch circa il possesso da parte delle api di un elaborato sistema di comunicazione erano corrette.

Che molte specie animali comunichino non sembra oggi affare controverso; la questione largamente dibattuta è piuttosto questa: i sistemi di comunicazione animale possono considerarsi linguaggi? Di fronte a scambi comunicativi seppure sofisticati come quelli messi in atto dalle api, è plausibile sostenere che essi siano anche lontanamente comparabili alla flessibilità esibita dal linguaggio umano? La disputa riguarda il problema più generale della natura che si è disposti ad accordare a proprietà specifiche dell’essere umano: possiamo affermare che facoltà tipicamente umane come il linguaggio siano indagabili in continuità con capacità mostrate da altri animali? Il richiamo alla tradizione darwiniana ci raccomanda una risposta affermativa: le competenze umane, e il linguaggio non fa eccezione, sono il frutto di abilità condivise in un certo grado con le altre specie. Il libro di Francesco Ferretti e Ines Adornetti “Dalla comunicazione al linguaggio. Scimmie, ominidi e umani in una prospettiva darwiniana” (Mondadori Università, Milano 2012), in linea con i principi evoluzionistici, è un contributo interessante a sostegno di una continuità di fondo tra esseri umani e specie animali.

L’idea che il linguaggio costituisca quel qualcosa in più da innalzare a emblema di una differenza di ordine qualitativo tra umano e non umano ha trovato e continua a trovare un facile appiglio nelle teorie di ispirazione cartesiana che rintracciano uno scarto incolmabile tra le proprietà meccaniche esibite dalla comunicazione animale e il carattere creativo proprio del linguaggio umano. Posto che la creatività rappresenti effettivamente la peculiarità della comunicazione verbale, l’operazione da compiere consiste nello spiegare come si guadagnino tali caratteristiche libere e creative; l’obiettivo primario degli autori è, pertanto, fornire un quadro evolutivamente plausibile entro cui inserire lo studio sull’origine del linguaggio. A tal fine, il focus d’indagine del volume riguarda il «punto di passaggio» tra comunicazione animale e linguaggio umano.

La questione viene affrontata in riferimento a due metodologie d’analisi: da una parte, dati interessanti provengono dall’indagine comparativa delle abilità di comunicazione delle scimmie antropomorfe, nostri parenti più prossimi, e più nello specifico delle scimmie allevate in ambiente umano; dall’altra parte, il versante della paleoantropologia fornisce indicazioni sugli sviluppi evolutivi del genere Homo, il cui riferimento appare proficuo in chiave filogenetica. Alla luce di un simile modello d’indagine, il passaggio dalla comunicazione al linguaggio è tematizzato in relazione ai dispositivi cognitivi coinvolti nell’avvento della comunicazione verbale umana e che sembrano essere condivisi con specie a cui Homo sapiens è evolutivamente imparentato. Viene così a delinearsi un quadro articolato in cui «l’analisi del linguaggio a partire dalle capacità comunicative delle scimmie e degli ominidi apre la strada a un modello interpretativo in grado di tenere insieme tanto gli elementi di continuità, quanto i caratteri di specificità del linguaggio umano (senza i quali sarebbe impossibile distinguere le capacità linguistiche della nostra specie dai sistemi di comunicazione animale)» (p. 3).

Nella prima parte del testo vengono mosse dure critiche alle teorie neocartesiane, le quali costituiscono il principale bersaglio polemico di Ferretti e Adornetti. L’insegna rappresentativa dell’orientamento cartesiano è issata da Chomsky: in Linguistica cartesiana (1966), l’autore individua nell’uso creativo del linguaggio l’invalicabile Rubicone tra comunicazione animale e comunicazione umana. La creatività del linguaggio riguarda, in particolare, due distinte accezioni: un’accezione combinatoria connessa alla possibilità di generare costruzioni potenzialmente infinite e una seconda nozione legata all’abilità di parlare in maniera appropriata mettendo in connessione i pensieri con le parole. La creatività intesa nei termini di appropriatezza, pur costituendo l’essenza del linguaggio, rimane per Chomsky (1988) un problema irrisolvibile in linea di principio. La creatività combinatoria distintiva del linguaggio verbale è invece spiegabile nei termini di una sintassi articolata deputata ai processi di produzione e comprensione linguistica presente esclusivamente nell’essere umano: «la differenza essenziale tra l’uomo e l’animale è rilevata nel modo più chiaro (…) dalla capacità umana di formare proposizioni nuove che esprimono pensieri nuovi e che sono adatte a situazioni nuove» (ivi, p. 46).

In rottura con il modello cartesiano e in accordo a quello darwiniano, che riconosce nel mondo naturale differenze di tipo quantitativo e non qualitativo, gli autori mettono al vaglio le ipotesi chomskiane chiedendosi se i nostri parenti più prossimi possiedano le capacità di interpretazione simbolica e le abilità sintattiche alla base della comunicazione umana. Sistematizzando con precisione le evidenze provenienti dalla letteratura sperimentale sulle competenze linguistiche delle grandi scimmie allevate in ambienti umani, la conclusione di Ferretti e Adornetti è che queste ultime siano capaci in un certo grado di comprendere e combinare sintatticamente i simboli (link) e, aspetto più interessante ai fini di una risoluzione del problema insolubile di Chomsky, siano in grado di utilizzare i simboli in senso proprio ossia in quanto entità che si agganciano al mondo esterno. A loro avviso, questa volta in accordo a Chomsky, proprio in tale proprietà intenzionale del linguaggio consiste la peculiarità umana del parlare in modo appropriato; anziché ritenerla un mistero, l’impresa degli autori è farvi luce con gli strumenti lasciati in eredità da Darwin. Su questo versante, le abilità esibite dalle scimmie antropomorfe offrono indicazioni utili da cui partire: se queste ultime mostrano competenze simboliche in ambedue le accezioni chomskiane è perché i dispositivi cognitivi di cui dispongono, seppure in differente grado di complessità rispetto agli umani, sono gli stessi implicati nell’origine e nel funzionamento del linguaggio (dei correlati neuroanatomici del linguaggio condivisi con gli scimpanzé Pikaia ne ha parlato qui).

La seconda parte del libro affronta il tema del processo di ominazione apportando ulteriori prove a favore di un’ipotesi di continuità dell’avvento del linguaggio. Nello specifico, in riferimento alle principali posizioni del dibattito attuale, gli autori contrappongono ai modelli interessati a spiegare la cognizione simbolica aderendo alla prospettiva dell’esplosione (tra gli altri Tattersall 2008) – secondo cui l’invenzione del linguaggio ha comportato lo sviluppo dirompente della capacità simbolica – un modello gradualista corroborato da dati che rintracciano abilità simboliche in antenati di Homo sapiens. In questa prospettiva, le peculiarità del linguaggio umano non sono proprietà improvvise ma piuttosto sono il prodotto di sistemi cognitivi emersi a partire da 2 milioni di anni fa con l’avvento del genere Homo. La critica alle tesi dell’esplosione, che fanno eco a una concezione neoculturalista, riguarda un aspetto centrale delle argomentazioni di Ferretti e Adornetti: tali modelli tematizzano l’origine del linguaggio in riferimento a un’apparizione improvvisa e inaspettata poiché ritengono che l’aspetto prioritario del linguaggio sia costituito dal codice simbolico, e dunque dalla grammatica (esattamente come sostiene Chomsky). Tuttavia, «sostenere (…) la priorità del codice linguistico sui simboli (sostenere che senza un codice-sistema non è possibile avere simboli) equivale a invertire i rapporti causali che, nella filogenesi effettiva di Homo sapiens, hanno portato alla nascita del pensiero simbolico» (p. 97).

Considerate le argomentazioni finora sostenute, al fine di dar conto in termini plausibili dell’uso creativo del linguaggio, per gli autori sono necessari due mosse: la prima concerne il passaggio dall’analisi dei modelli del linguaggio centrati sulla grammatica a quelli fondati sulla pragmatica ossia sulle effettive condizioni d’uso tra parlanti; la seconda richiede lo studio dei dispositivi cognitivi che consentono agli esseri umani di avere un linguaggio appropriato.

L’ultima parte del volume è dedicata, dunque, all’analisi delle proprietà a fondamento del linguaggio umano, in relazione ai sistemi di elaborazione sottostanti. In base a quanto detto, l’ipotesi chiave è che spostare l’attenzione dai modelli sintattico-formali a quelli inferenziali centrati sulla produzione e sul riconoscimento di intenzioni (Sperber, Wilson 1986) sia un passo necessario da compiere per spiegare le proprietà peculiari della comunicazione umana in termini continuistici e gradualistici.

Un’ipotesi fondata sulle intenzioni comunicative ha alla base un’architettura cognitiva di cui il «lettore della mente» costituisce un componente essenziale. Tale dispositivo consentirebbe il passaggio da una comunicazione rigida e obbligata a un linguaggio maggiormente flessibile. L’idea che le capacità di mentalizzazione siano a fondamento dell’origine del linguaggio è ampiamente condivisa; ma gli autori si spingono oltre, sostenendo che per spiegare come il linguaggio possa essere appropriato e quindi agganciato al mondo di cui parla e allo stesso tempo libero e flessibile, sia indispensabile analizzare i dispositivi che regolano il radicamento degli umani all’ambiente fisico oltre che sociale e quelli che consentono capacità proiettive e quindi di sganciamento dal mondo (già sostenuta in Ferretti 2010). L’ipotesi cardine è che il linguaggio sfrutti tali sistemi di ancoraggio e proiezione per risultare coerente e consonante alla situazione. In questa prospettiva, la creatività della comunicazione umana riguarda proprietà legate al piano del discorso (come la coerenza) prioritarie rispetto a quelle sintattiche concernenti l’analisi dei singoli enunciati; il riferimento da parte di Ferretti e Adornetti all’ambito delle patologie linguistiche corrobora empiricamente tali considerazioni. Rintracciare nel discorso le peculiarità del linguaggio equivale a mettere in luce la natura dialogica della conversazione umana che «non è mai un semplice scambio di informazioni: nella conversazione, gli interlocutori mirano a costruire (anche quando non ci riescono) uno “spazio comune di convergenza”» (p. 178).

Proprio in tale carattere dimora la specificità dell’essere umano. Il percorso argomentativo costruito nel corso del libro permette agli autori di raggiungere una meta importante: i sistemi di ancoraggio e di dislocazione dall’ambiente fisico e sociale caratterizzano in un certo grado anche altre specie animali consentendo loro comportamenti e abilità comunicative flessibili; l’appropriatezza del linguaggio è pertanto una proprietà spiegabile in una prospettiva evoluzionistica. Guadagnata la continuità in linea con lo spirito darwiniano, l’approdo finale riguarda la tipicità di Homo sapiens che, come detto, è rinvenuta nell’aspetto conversazionale della comunicazione umana. In questa forma peculiare di interazione, la comunicazione assume sembianze del tutto opposte rispetto a quelle di chi ritiene che parlare consista in un semplice e lineare passaggio di idee; la conversazione dialogica richiede un impegno continuo al fine di comprendere e farsi comprendere. La costruzione di uno spazio condiviso è la realizzazione finale (ma mai compiuta) di un processo calibrato sulle intenzioni e sulle aspettative degli interlocutori. Una concezione di questo tipo apre a prospettive significative anche sul piano etico; difatti, la costituzione di uno spazio convergente comporta di rivedere costantemente le proprie idee tenendo conto di quelle degli altri. Emerge così la rilevanza del carattere democratico connaturato all’impegno che ogni individuo destina alla costruzione del dialogo.

Alessandra Chiera


Riferimenti bibliografici:

Chomsky, N. (1966). Cartesian Linguistics, Harper and Row, New York (trad. it. Linguistica cartesiana, Boringhieri, Torino 1969).

Chomsky, N. (1988). Language and Problems of Knowledge. The Managua Lectures, MIT Press, Cambridge (Mass) (trad. it. Linguaggio e problemi della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1998).

Ferretti, F. (2010). Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico, Laterza, Roma-Bari.

Ferretti, F., Adornetti, I. (2012). Dalla comunicazione al linguaggio. Scimmie, ominidi e umani in una prospettiva darwiniana, Mondadori Università, Milano.

Michelsen, A., Andersen, B.B., Kirchner, W.H., Lindauer, M. (1989). Honeybees can be recruited by a mechanical model of a dancing bee, «Naturwissenschaften» 76: 277-280.

Sperber, D., Wilson, D. (1986). Relevance: Communication and Cognition, Harvard University Press, Cambridge (Mass) (trad. it. La pertinenza, Anabasi, Milano 1993).

Tattersall, I. (2008). The World From Beginnings to 4000 BCE, Oxford University Press, New York (trad. it. Il mondo prima della storia. Dagli inizi al 4000 a.C., Cortina Raffaello, Milano 2009).