Alla ricerca delle cause della biodiversità nell’albero della vita
La classificazione degli esseri viventi in gruppi ci mostra come alcuni di essi siano molto ricchi di specie, mentre altri ne contengono poche; come si spiegano queste notevoli differenze nel successo evolutivo?
Questa differenza può essere spiegata da due ipotesi principali, non mutuamente esclusive: la prima, detta ipotesi dell’età del clade, afferma che certi cladi possono avere più specie in quanto sono più antichi e hanno avuto più tempo perché la speciazione ne arricchisse la varietà. La seconda ipotesi invece chiama in causa il tasso di diversificazione, in base al quale i cladi possono accumulare specie a ritmi diversi. In pratica, la ricchezza di specie dipenderebbe dalla differenza nel tempo medio dei processi di speciazione ed estinzione entro clade, i soli a determinare il numero di specie presenti.
Gli studi effettuati finora hanno ottenuto risultati contrastanti, anche se l’ipotesi dei tassi di diversificazione sembra la più promettente, specie quando si confrontano tra loro i cladi più antichi e dello stesso rango (cioè o phyla, o famiglie, etc). Si tratta a questo punto di capire quali caratteristiche degli organismi influenzino i tassi di diversificazione, cercando di stabilire legami fra tali variabili.
Finora gli studi hanno per lo più considerato l’effetto di un solo tratto alla volta sulla diversificazione; poiché essa tuttavia può essere influenzata da più caratteristiche contemporaneamente, non si è potuta stimare l’importanza relativa di tratti diversi, né il potenziale impatto di eventuali correlazioni. Ad esempio, una caratteristica ininfluente sulla diversificazione potrebbe simulare un effetto solo perché associata a un’altra che la influenza direttamente.
Un recente studio, effettuato da ricercatori del Dipartimento di ecologia e biologia evolutiva dell’Università dell’Arizona e pubblicato su “The American Naturalist”, ha scelto di affrontare il problema concentrandosi sul gruppo Metazoi, che comprende più dell’80% di tutte le specie conosciute e ha evoluto una grande varietà di morfologie, comportamenti e abitudini ecologiche. Gli animali spaziano infatti dai taxa sessili marini come i Poriferi, privi di organi differenziati, ai taxa terrestri ricchi di organi complessi come gli Artropodi e i Cordati.
La categoria tassonomica scelta è quella del phylum (che raggruppa gli organismi sulla base della struttura corporea). La scelta è giustificata dal fatto che i phyla animali offrono una marcata differenza nella varietà delle specie, a parità di età: esistono phyla con una sola specie (i Placozoi) e altri che ne contengono decine di migliaia (gli Anellidi, i Molluschi, i Cordati) e persino più di un milione (gli Artropodi). Sono stati considerati 28 phyla, la maggior parte di quelli attualmente riconosciuti.
La ricerca si è concentrata sulle specie attualmente esistenti, non prendendo in considerazione i fossili, perché di questi è difficile stimare sia i tratti di natura comportamentale sia la varietà delle specie, giacché nei reperti si conservano principalmente gli organismi dotati di parti dure.
I tratti che si possono considerare sono numerosissimi; gli autori, sulla base di studi precedenti, hanno scelto di utilizzarne 18, che spaziavano dalla morfologia all’ecologia, dalla riproduzione allo sviluppo. Grazie all’uso di strumenti statistici come la regressione multipla applicata alla filogenetica, che permette di individuare le correlazioni tra una variabile dipendente – in questo caso, il tasso di diversificazione – e più variabili esplicative, cioè i vari tratti ipotizzati, hanno individuato un insieme di 5 tratti che spiega circa il 74% della variazione nei ritmi di diversificazione: il doicismo o gonocorismo, essere cioè a sessi separati; il parassitismo; la capacità di vedere l’ambiente tramite occhi o fotorecettori; la presenza di uno scheletro, interno o esterno; il vivere in un habitat non marino. Tuttavia, un modello che include solo tre di questi tratti: scheletro, parassitismo e habitat, spiega quasi tutta la variazione (circa 67%).
Può sembrare strano che caratteristiche apparentemente straordinarie come la presenza di una testa, o degli arti, oppure di sistemi complessi di organi interni, come il sistema digestivo o riproduttivo, abbiano sorprendentemente poco impatto sulla diversificazione delle specie.
Quali possono essere i motivi che rendono così importanti i tratti individuati? In che modo ciascuno di essi accresce la diversificazione? Si possono suggerire alcune ipotesi, anche se occorre sempre tenere ben presente che la correlazione statistica può supportare, ma non provare, un rapporto di causa-effetto.
Per quanto riguarda l’ambiente non marino, che comprende sia gli habitat terrestri sia quelli di acqua dolce, si può ritenere che esso offra barriere più efficaci alla dispersione, promuovendo così la speciazione. La visione potrebbe facilitare l’ingresso in nuove zone adattive e accrescere l’abilità degli organismi di localizzare prede, predatori e potenziali partner. Il gonocorismo può facilitare la fecondazione interna e perciò le transizioni agli ambienti terrestri, dove la fecondazione esterna è problematica; può inoltre aumentare il potenziale evolutivo delle specie aumentando la diversità genetica attraverso la ricombinazione genica.
Anche se pare che il primo animale dotato di scheletro risalga addirittura alla fauna di Ediacara, l’evoluzione dello scheletro è tradizionalmente associata con l’esplosione del Cambriano; si ritiene infatti che tale innovazione corporea abbia promosso una rapida diversificazione di molti phyla animali, fornendo supporto al corpo e difesa dai predatori. Meno facile spiegare l’effetto del parassitismo, il cui contributo alla diversificazione resta incerto, e supportato solo da questo studio, almeno a livello dei phyla. Un potenziale meccanismo potrebbe essere la cospeciazione dell’ospite e dei suoi parassiti, che consente potenzialmente di raddoppiare le specie del parassita ogni volta che è l’ospite a compiere la speciazione.
Resta ampio spazio per future ricerche: sarebbe interessante capire quale dei due processi coinvolti, la speciazione e l’estinzione, sia più importante nel determinare il tasso di diversificazione, e quali tratti influenzino ciascuno dei due processi. Sappiamo che esistono taxa i cui fossili testimoniano una grande ricchezza di specie nel passato, di cui tuttavia resta oggi ben poco: questo sembra suggerire una maggior importanza dell’estinzione rispetto alla speciazione.
Inoltre si dovranno approfondire gli specifici processi attraverso i quali i tratti esplicano il loro effetto. Si tratta di un campo di ricerca assai interessante poiché potenzialmente esteso alla maggior parte delle aree della biologia, come si vede dalla eterogeneità dei tratti coinvolti. Un altro interessante argomento per future ricerche è come queste caratteristiche potrebbero interagire tra loro ed essere influenzate da fattori storici su larga scala, come eventi di estinzione di massa e cambiamenti climatici.
Riferimenti:
Tereza Jezkova and John J. Wiens, “What Explains Patterns of Diversification and Richness among Animal Phyla?,” The American Naturalist, DOI: 10.1086/690194
Immagine: Marshal Hedin “Brachycybe lecontii (F Andrognathidae) millipede” Licenza: CC BY-SA 2.0